Ottant’anni sono tanti. Abbastanza per fondare una Repubblica, scrivere una Costituzione, attraversare un secolo. Eppure, ogni 25 aprile, la destra italiana sembra colta da un’irritazione allergica. Prurito ideologico, fastidio epidermico, reazioni scomposte. È la Liberazione, dicono, ma con moderazione. È la memoria, ma col volume basso. È la storia, ma riscritta a puntate.

Anche quest’anno il copione non cambia. Ministri che cincischiano. Cariche dello Stato che equiparano vittime e carnefici con l’eleganza di un colpo di spugna. Sindaci che saltano le celebrazioni come fossero noiosi pranzi di famiglia. E poi – dulcis in fundo – la richiesta di “festeggiare con sobrietà”. Come dire: fate pure, ma fate piano. Non disturbate.

Sobrietà. Come se ricordare chi ha combattuto il fascismo fosse un eccesso da contenere. Come se gridare “libertà” fosse maleducato. Come se la Liberazione dal nazi-fascismo fosse un optional nel pacchetto storico nazionale e non il cuore pulsante della nostra democrazia.

Del resto, la nostra presidente del consiglio viene da lì: da un partito che ha conservato la fiamma tricolore anche quando bruciava solo nostalgia. Oggi, quella stessa storia si aggira nei palazzi con scarpe lucide e comunicazione strategica, ma con gli stessi imbarazzi di sempre. L’antifascismo? Meglio non nominarlo. Troppo divisivo. Meglio parlare di tutte le dittature, così nessuno si offende. Meglio sorvolare.

Ma c’è un problema: la memoria non è neutrale. È scomoda. È partigiana. E il 25 aprile impone di scegliere da che parte stare. La destra italiana, da ottant’anni, quella scelta continua a rimandarla, confonderla, svuotarla di senso. Perché celebrare la Liberazione significa anche riconoscere le colpe del fascismo. E questo, evidentemente, costa ancora troppo.

Così si preferisce attaccare i partigiani, ridurli a caricatura, bollarli come faziosi. Perché il partigiano, con la sua scelta netta, mette in crisi chi invece ha fatto dell’ambiguità una postura politica. Chi ha avuto ottant’anni per dire da che parte sta e ancora oggi balbetta.

Il 25 aprile non è una festa da sussurrare. È una giornata da vivere a voce alta, con orgoglio, con gratitudine, con la chiarezza di chi sa da dove viene. Perché chi ha liberato l’Italia non lo ha fatto in silenzio. E chi oggi invoca la sobrietà, non sta chiedendo rispetto. Sta chiedendo silenzio. Ma la memoria, quella vera, non tace mai. La memoria fa rumore. E deve continuare a farlo.