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Il 20 ottobre del 2008 moriva a Formia Vittorio Foa, politico, sindacalista, giornalista e scrittore. Un uomo che dagli esordi in Giustizia e libertà, passando per la Resistenza, la Costituente, la militanza nella Cgil ha attraversato l’intera storia della sinistra italiana.
Nato a Torino il 18 settembre 1910, Vittorio consegue nell’ateneo cittadino la laurea in giurisprudenza nel 1931. Amico di Leone Ginzburg, nel 1933 si avvicina al gruppo antifascista di Giustizia e Libertà, collaborando con lo pseudonimo di Emiliano agli omonimi quaderni pubblicati a Parigi. Viene arrestato a Torino il 15 maggio 1935 su delazione dell’informatore dell’Ovra Pitigrilli. Poco dopo l’arresto è trasferito a Roma, nel carcere di Regina Coeli e denunciato al Tribunale speciale fascista. Resterà in carcere fino al 23 agosto 1943. Padre costituente, deputato socialista per tre legislature, nel 1955 diventa segretario nazionale della Fiom per passare, alla morte di Giuseppe Di Vittorio, alla segreteria della Cgil.
Nel 1970 decide di lasciare gli incarichi sindacali per dedicarsi agli studi (dal 1987 al 1992 è senatore, eletto nelle liste del Pci e poi del Pds, come indipendente). Dirà nel suo discorso di addio alla confederazione: “Voi sapete che questo distacco è difficile. Mi consentirete di non vestire di parole dei sentimenti che sono agitati e profondi. Vi prego caldamente, in ragione di una antica stima reciproca, di dispensarvi da parole di commemorazione o gratificazione. Voglio solo ringraziarvi tutti, e con voi mille e mille compagni noti o sconosciuti, per quel che in tanti anni avete fatto di me”.
“Età e ragioni di salute - affermava nell’occasione - mi hanno indotto a dimettermi da segretario della Cgil. Si è amichevolmente osservato che l’età non si misura col numero degli anni. Resta il fatto che, l’attenzione dovuta al merito che uno ha acquisito con molti anni di lavoro, contraddice la cruda necessità di congedare chi è logorato. Solo rimedio utile per attenuare quella contraddizione è la fissazione di un limite di età oggettivo, impersonale, oltre il quale si deve partire non per incapacità soggettiva, ma per una norma. E in questo caso la norma vale se non vi sono eccezioni. Si è anche osservato che uno deve, per la Causa, sopportare i malanni dell’età e una salute deteriorata. Ma se la salute ha poca importanza per i singoli, essa ne ha molta per l’organizzazione, soprattutto quando si tratta di quel logoramento tipico del lavoro sindacale che coinvolge il modo di lavorare, la calma e la necessaria capacità di percezione dei particolari del movimento, fuori degli schemi generici”.
“La Cgil è stata la sua casa”, diceva il giorno dei funerali l’allora segretario generale Guglielmo Epifani. “Se ne va uno dei grandi uomini del nostro sindacato. Dobbiamo ringraziarlo per tutto quello che ci ha dato e per il senso di libertà che ci ha lasciato. A volte la sua poteva sembrare una speranza disarmata, ma Vittorio ha sempre visto nel fare e nell’agire il legame tra la speranza e il cambiamento (…) Si considerava un operatore sindacale, e la sua più grande preoccupazione è sempre stata quella di avere un sindacato autonomo. Fino agli ultimi giorni aveva chiesto di vederci, di parlarci: non si considerava uno messo di lato, si considerava, ed era, uno di noi”.
A dare notizia della morte di Vittorio Foa sarà, per desiderio della famiglia, l’allora segretario del Pd Walter Veltroni: “È un immenso dolore per noi - dirà - per il popolo italiano, è un immenso dolore per gli italiani che credono nei valori di democrazia e libertà, per l’Italia che lavora, per il sindacato a cui Vittorio Foa ha dedicato la parte più importante della sua vita (…) È un dolore per me personalmente perché Vittorio Foa incarnava ai miei occhi il modello del militante della democrazia, un uomo con una meravigliosa storia di sofferenza, di lotta e di speranza, un uomo della sinistra e della democrazia, mosso da un ottimismo contagioso e da un elevatissimo disinteresse personale (…) Penso che tutto il paese senta Vittorio Foa come uno dei suoi figli migliori”.
“Sembrava che ridesse sempre - scriveva di lui Concita De Gregorio su l’Unità - anche quando parlava serio. Anche in questa foto qui sopra dove forse ride davvero, chissà, non è proprio un sorriso in effetti: è quel suo modo di stare al mondo con i pugni chiusi, la fronte alta, la coscienza limpida e nelle parole un dubbio, sempre. Alla fine di ogni frase una domanda, perpetua ricerca. Mai un lamento. Di tutti gli altissimi insegnamenti che Vittorio Foa, morto alla fine di un secolo irripetibile, ci lascia in dote questo che sembra un dettaglio mi pare stasera il più grande. Quel sorriso, diverso e lo stesso in tutte le foto e i ricordi. Ciò che in una vita come la sua un sorriso perpetuo significa: andare avanti, pensare agli altri, provare ancora, non chiudersi, non arrendersi”.
Scrittore poliedrico e fecondo, Foa aveva pubblicato poco prima della morte il saggio Le parole della politica. “Forse - vi scriveva - il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell’agire pensando di essere soli e nel pensare solo a se stessi (…) Io non credo che si possa insegnare a pensare al resto del mondo, ma pensare se stessi insieme agli altri è l’unico modo per ricostruire i cosiddetti valori”.
“Nel lavoro della formazione - ci diceva - e soprattutto in quella che il dirigente dà agli altri dirigenti, nella continuità del suo lavoro, vi è un elemento molto importante, e non si tratta della disciplina, ma è la lotta contro il conformismo. Non bisogna accusare l’indisciplina. Non c’è niente di male a essere indisciplinati, se nell’indisciplina c’è una volontà. La cosa peggiore è quando la volontà non c’è più, quando si sceglie sempre di dare retta ad altri. L’insegnamento da dare ai compagni è che pensino con la loro testa. Possono anche pensare male, ma l’importante è che pensino con la loro testa. Questa è la vita che io credo di avere vissuto nella Cgil e credo di aver amato nella Cgil più di ogni altra cosa”.
Vittorio era un uomo particolare, dal sorriso sornione e l’intelligenza acuta, la mente brillantissima. Aveva personalità straordinaria, ben riassunta dalla frase - notissima - rivolta a Pisanò durante un dibattito televisivo: “Se avesse vinto lei io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me”. Perché siamo un’altra storia, e Vittorio lo sapeva bene.