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Venerdì 21 febbraio 2020. Un giorno qualunque, un qualunque fine settimana. Appena alzata mi appresto a fare colazione, accendo il tablet e sulla home page del quotidiano online, come prima notizia, è riportata la scoperta, a Codogno, di un caso di coronavirus. È il primo in Italia. Condivido lo stupore con Giorgio, il mio compagno, ma non comprendiamo subito la portata dell'evento e le conseguenze che porterà con sé. Parto per Milano dove mi aspetta un coordinamento sulla sanità lombarda: sarà – penso io – un’altra giornata fitta di impegni.
A Milano non si parla d'altro: il coronavirus è arrivato in Italia e il numero dei contagiati è salito a tre. Aumentano i casi e aumenta il panico. Vivo a Codogno da tre anni: se fossi infetta? Mi tengo a distanza da tutti un po’ per scherzo e un po’ perché non si sa mai. Passano solo poche ore: l’assessore regionale alla Sanità chiede ai codognesi di rientrare nelle proprie abitazioni. Chiamo al telefono il mio compagno: mi comunica che sta rientrando a casa e che mi aspetta lì. Ne parlo con Guido, il mio segretario organizzativo: concordiamo che è meglio per me allontanarmi dal lavoro e attendere informazioni più dettagliate.
Sono rientrata a Codogno il 21 febbraio alle 14 e, da allora, non ne sono più uscita. I negozi, quel pomeriggio, hanno abbassato le serrande definendo uno scenario da città abbandonata, inquietante e spettrale. Non avevamo mai visto nulla di simile: una città vitale e ricca si trasforma, in poche ore, in un set di Cinecittà. Siamo increduli, sembra tutto un sogno. Intanto la sera, davanti ai telegiornali, scopriamo che il paziente 1 è ricoverato in condizioni critiche e che sono stati analizzati parenti e amici. L’Unilever, l’azienda di cui è dipendente, viene chiusa e misure straordinarie vengono prese per Codogno e altri dieci comuni tutti rientranti nella zona rossa.
Sabato è una giornata sospesa: i numeri degli infetti aumentano e viene data notizia del primo decesso. Così, improvvisamente, tocchiamo con mano la gravità della situazione: siamo in epidemia e non sappiamo come arginare il virus. Abbiamo paura, paura di ammalarci, di infettare qualcuno, delle conseguenze che il virus avrà sull’economia della zona e della Regione. Le autorità non lasciano alla buona volontà degli abitanti il rispetto delle linee di confine: domenica pomeriggio compaiono esercito e forze di polizia sulle vie di accesso. Siamo reclusi. La domenica ci informano che alcuni supermercati saranno aperti per poche ore. I cittadini vengono fatti entrare pochi alla volta e solo con la mascherina. Si rimane in attesa per ore.
Disdico gli appuntamenti di lavoro previsti per l’indomani: lo stato d’allerta è notorio ma devo spiegare che sono in quarantena. Anche la zona gialla e il resto d’Italia scontano gli effetti della diffusione del Covid-19: vengono annullate le feste per il carnevale, locali e pub vengono chiusi dopo le 18, le aziende di Milano invitano caldamente i dipendenti delle zone gialle o limitrofe al Lodigiano a lavorare da casa. Riscopriamo i ritmi della vita domestica: sveglia presto, qualche pulizia quotidiana, le telefonate, le mail, poi si prepara il pranzo. Nelle ore vuote preparo dei dolci, leggo e ascolto musica. Mi manca il lavoro: da casa non riesco a seguire i miei lavoratori come vorrei, non ho il confronto con i colleghi e con gli altri uffici. È tutto più difficile. E poi ho voglia di normalità e di recuperare la mia vita sociale.
Le notizie del telegiornale sono preoccupanti: i contagi aumentano vertiginosamente di giorno in giorno e non sappiamo per quanto tempo rimarremo isolati. Parlo con Cinzia, una lavoratrice della zona rossa. Mi dice che dove vive lei non è permesso nemmeno passeggiare: alcuni militari particolarmente solerti invitano i cittadini a tornare a casa e a non formare file fuori dai negozi di alimentari. Ma come si può frenare la voglia di comunità? Non ne abbiamo mai avuto bisogno come in questo momento. Alcuni cittadini si organizzano all’aperto con i thermos di caffè e riscoprono un modo nuovo, forse più vero, di stare insieme.
Le telefonate dei lavoratori riguardano l’opportunità di rientrare al lavoro su richiesta delle aziende: mi chiedono se le misure di sicurezza predisposte sono sufficienti, lamentano la scarsità degli strumenti di prevenzione come le mascherine, mi chiedono se, con la mansione che svolgono, devono uscire dalla zona rossa per recarsi al lavoro. La prefettura ha predisposto un'unità di crisi e le risposte non sono univoche, ma capisco che gli operatori impegnati sono subissati da richieste di ogni tipo. È anche per loro che vorrei riprendere il lavoro: sto bene e mi sento inutile; inutile e in colpa. Anche nei confronti di chi sostiene turni sfiancanti negli ospedali e nelle case di riposo.
Mercoledì della prima settimana decido di uscire: faccio un giro in macchina. I paesi si possono percorrere in libertà, I blocchi sono collocati solo sul confine della zona rossa. Negozi e locali sono chiusi come da disposizioni ma la gente è per strada: parla, scherza, vuole incontrarsi e confortarsi. Chissà perché pensavo che le epidemie fossero “storie da libri”, la narrazione dolorosa del passato superato dalla tecnologia e dai progressi della scienza. Penso alla “Morte a Venezia” di Mann, “L’amore ai tempi del colera” di Garcia Marquez e, ovviamente, ai “Promessi Sposi” del Manzoni. E qui la memoria si sofferma sulla vivida descrizione del sogno angosciante con cui Don Rodrigo scoprirà di essere appestato: egli si trova circondato da una folla caotica e soffocante. Si sente oppresso e sente premere sul costato l’impugnatura della spada del vicino. Quando si sveglia scopre di avere un bubbone sul costato nel punto, in cui, nel sogno, sentiva premere l’impugnatura. Allo stesso modo mi torna alla mente la “Storia della colonna infame” quando leggo sul giornale che, in un paese della zona rossa le case in cui vivono gli infetti di Covid-19 sono state segnate con un simbolo nero. Ancora una volta “dagli all’untore”.
L’epidemia ci porta a riflettere sulla classifica delle priorità e ci porta a considerare quanto siano illusori i nostri progetti: pensiamo di avere tutto sotto controllo, predisponiamo le nostre strategie poi, d’un tratto, tutto cambia e tutto deve essere ripensato. Certo, lo so, non siamo più abituati agli imprevisti nella società dei pulsanti, del reset e del “tutto subito”. Lo so: dovremo imparare ad aspettare. Sabato era una bellissima giornata, temperature primaverili, inusuali in pieno inverno. Le zolle sono secche non piove da troppo tempo, ma la questione climatica chi se la ricorda più? Spazzata via dal coronavirus.
Decidiamo di fare una passeggiata lungo i campi. Le strade di campagna sono gremite da codognesi che approfittano di una giornata luminosa per recuperare un po’ di normalità. A gruppi si incontrano, si salutano, si scambiano notizie sui concittadini ricoverati. Camminiamo a lungo, rientriamo ascolti da un tramonto rosso. Solo ora capisco che la Bassa ce la farà: nelle persone che ho incrociato ho colto l’ottimismo, la pazienza, la voglia di aiutarsi, ed è tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
Francesca Di Bella è segretaria generale della Funzione Pubblica Cgil di Lodi e componente di segreteria della Camera del lavoro