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Viviamo un tempo, in Veneto, in cui le parole rischiano di perdere senso.
Cosa significa, ad esempio, “buon governo”? E il termine “modello” è davvero applicabile alla nostra regione? Se in entrambi in casi ci si riferisce all’ordinaria amministrazione, non c’è dubbio che non sono poche le cose che funzionano, spesso per merito di una tradizione che – nonostante innumerevoli arretramenti – non è ancora stata del tutto tradita. Ma questa è un’epoca che ha ben poco di consueto, e molto di eccezionale. E se guardiamo le cose da questo punto di vista, il discorso cambia.
Partiamo dalla più stretta attualità, ossia dall’emergenza sanitaria determinata dal Coronavirus. E facciamolo tornando allo scorso febbraio, quando tutto è cominciato. Non è vero che la Giunta regionale ha indovinato tutte le scelte, anzi ha rischiato di sbagliarne molte.
Appena pochi giorni dopo le prime chiusure, qui si parlò di epidemia mediatica e si invitò il Governo nazionale – sulla spinta degli industriali locali - a riaprire tutto. L’appello, per fortuna, restò inascoltato. E quando furono individuate le aree in cui limitare gli spostamenti (l’intera Lombardia e molte province del Nord, tra cui tre venete), si gridò allo scandalo. A livello nazionale quella scelta non solo fu confermata, ma estesa all’intero territorio italiano.
Difficile calcolare quante vite si sono salvate grazie alla fermezza di decisioni che come Paese abbiamo assunto per primi sul versante occidentale del mondo, probabilmente moltissime.
Altrettanto complicato è misurare quanto la mobilitazione dei lavoratori per impedire che le ragioni dell’economia prevalessero su quelle della salute, come volevano le nostre controparti, abbia inciso sull’efficacia della battaglia contro Covid 19. Ma che abbia contato è difficile nutrire dubbi.
Di fronte a questa ricostruzione si potrebbe eccepire: eravamo alle prese con qualcosa di inedito e senza precedenti nell’ultimo secolo, ed è ovviamente così. Da tutto quello che è successo, però, sembra non si sia imparato a sufficienza. Giunti sulla soglia dell’estate, il Veneto è stato tra i protagonisti della corsa alla riapertura, pretendendo che ripartissero perfino le discoteche e le sagre, e purtroppo le regioni sono state lasciate libere di scegliere nonostante il parere contrario del Comitato tecnico scientifico. Senza quella “libertà”, le scuole riaprirebbero con un andamento dei contagi di gran lunga inferiore, e sarebbe meglio per tutti.
Nessuna di queste contraddizioni ha fatto breccia nella narrazione corrente, che ci ha descritti come i primi della classe. Ed è anche comprensibile, se guardiamo a quanto di terribile è accaduto appena fuori dai nostri confini. Il sistema sanitario veneto ha indubbiamente retto, rispetto a quello lombardo. Eppure, c’è un non detto. I processi di definanziamento, di destrutturazione, di privatizzazione della sanità proseguono da anni anche alle nostre latitudini. Semplicemente, le resistenze che hanno incontrato lungo la strada sono state molto forti. E a porli, quegli ostacoli, sono state le forze sociali, le realtà civiche, le comunità locali che sono riuscite a non far smantellare definitivamente quello che, dai tempi di Tina Anselmi, era davvero un’eccellenza a livello europeo.
Dovremmo aver imparato tutti, dal dolore e dai lutti che ci auguriamo di esserci lasciati alle spalle, non solo che occorre fermarsi nell’opera di smantellamento di un sistema sanitario pubblico e universalistico, ma che occorre ritornare sui passi sbagliati compiuti fin qui. Sarà questa una delle sfide dei prossimi cinque anni. Comincerà il 22 settembre, il giorno dopo una campagna elettorale che appare senza storia, con la propaganda e le autocelebrazioni che dovranno inevitabilmente lasciare spazio ai fatti.
E non solo sul lato della salute pubblica. Perché gli ambiti in cui il “buon governo” è rimasto poco più di un’aspirazione sono molti. Secondo l’ultimo rapporto Ispra, il Veneto è al primo posto in Italia per tassi di impermeabilizzazione e di consumo di suolo, la qualità dell’aria è pessima e gli eventi climatici avversi colpiscono nella maniera più dirompente il nostro territorio con cadenza sempre più frequente.
Abbiamo un’evasione fiscale quantificabile in 10 miliardi annui e un livello di penetrazione della criminalità organizzata nel tessuto produttivo preoccupante, che trova terreno fertile nell’illegalità diffusa che caratterizza i rapporti di lavoro (a partire dalle norme sulla sicurezza e la salute dei lavoratori per arrivare a forme di caporalato e di sfruttamento qui una volta sconosciuti) e la gestione degli appalti pubblici.
Ma almeno l’economia, qualcuno potrebbe obbiettare, funziona. Sarebbe più corretto dire: funzionava, o per essere più indulgenti: non funziona più come nei momenti buoni. Non ci siamo mai del tutto ripresi dalle crisi finanziarie degli anni ’10, e solo grazie ai record macinati nell’export e nel turismo i livelli occupazionali non sono precipitati. Sono stati, l’export e il turismo, la nostra salvezza e il nostro limite. Costituiscono il 50% del Pil regionale, ma si sono largamente fondati sulla competizione di costo, sulla compressione della domanda interna e sulla svalutazione del lavoro.
Questo, da una parte ha comportato che ogni anno 30.000 veneti, soprattutto giovani, emigrino alla ricerca di un lavoro dignitoso, mentre sono 100.000 i ragazzi che non studiano e non lavorano; e dall’altra ci ha impedito di modernizzare il nostro tessuto produttivo. Lo dimostrano la quota di spesa in Ricerca e Sviluppo, inferiore alla media nazionale, la scarsa propensione agli investimenti e all’innovazione del sistema delle imprese, ridotte ormai al mero ruolo di subfornitore e contoterzista povero nella filiera mitteleuropea.
È senz’altro questa l’altra sfida che caratterizzerà il futuro prossimo: cambiare modello di sviluppo, visto che i due punti di forza della nostra economia sono i più colpiti dalla pandemia. E soprattutto considerato che la rivoluzione tecnologica e la crisi climatica esigono di essere affrontate con un rinnovato ruolo del pubblico, ché se lasciamo fare al mercato abbiamo il declino già segnato.
La sua “mano invisibile” ci ha regalato 800.000 cittadini veneti a rischio povertà ed esclusione sociale, di cui ben 165.000 bambini e minori. Una sottoccupazione femminile e un gap salariale a favore degli uomini (superiore al 30%) indegni per una regione europea nel 2020.
Chissà se era questo il programma del XIII congresso mondiale della famiglia celebratosi a Verona nella primavera del 2019. Come ribadimmo in una delle manifestazioni più colorate e partecipate della storia recente, non abbiamo nessuna intenzione di farlo realizzare. E come hanno spiegato le ragazze e i ragazzi che hanno animato le strade e le piazze delle nostre città, anche sulla questione climatica non abbiamo alcuna voglia di arrenderci a ciò che in troppi considerano ineluttabile.
Infine, come diremo con Cisl e Uil alla mobilitazione “Ripartire dal lavoro” il 18 settembre a Verona, contemporaneamente a tutta Italia, il movimento sindacale vuole restituire protagonismo, dignità, diritti, speranza a chi ancora desidera, con il proprio lavoro, trasformare e far progredire la società veneta e quella italiana. Indissolubilmente legate in una comunità di destino con l’Europa, che nessuna deriva separatista potrà dividere.
Mancano pochi giorni alla fine di un confronto elettorale stanco e poco appassionante. La Cgil del Veneto, il suo programma politico e sindacale lo farà vivere in ogni occasione possibile e, soprattutto, proverà ad attuarlo non appena le parole torneranno ad avere attinenza con la realtà.
Antonio Martini, Ufficio Stampa Cgil Veneto