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Marginalizzati. Dimenticati. Criminalizzati. In un dibattito pubblico asfittico che ha speso fiumi di parole e di inchiostro solo sui banchi monouso a rotelle per le scuole di ogni ordine e grado, ma non ha dedicato neanche un pensiero o un trafiletto di giornale alle università. E sì che il confronto, numeri alla mano, sembrerebbe impari, se è vero che il Golia della scuola conta una popolazione di quasi 9 milioni di ragazzi e bambini, mentre il Davide degli atenei non arriva al milione e seicentomila studenti. E senz’altro è facile preoccuparsi di figli piccoli e di genitori e nonni che li pensano, osservano come si muove la politica nei loro confronti e poi votano. Mentre quei ventenni, brutti, sporchi e cattivi, dovrebbero essere grandi abbastanza per cavarsela da soli e, già che ci sono, avrebbero potuto evitare di perdersi in tutti quegli aperitivi selvaggi e quelle vacanze di gruppo che – vox populi – ci hanno fatto precipitare di nuovo nell’emergenza sanitaria. Un pensiero diffuso in questi ultimi mesi di pandemia.
Di fronte alla memoria corta di un Paese che ha dimenticato di esser stato la culla dell’istituzione universitaria e che annovera, tra le sue fila, la più antica università del mondo, la più grande d’Europa, e alcuni tra i più prestigiosi luoghi del sapere nella storia dell’umanità, c’è da chiedersi perché l’Italia sia agli ultimi posti per numero di iscritti e la media annua dei nostri laureati sia ben lontana da quella europea. C’entrano – e tanto – il livello di investimenti e condizioni – ribadito persino nei primi passaggi della finanziaria che dovrebbe, secondo le intenzioni, ribaltare tutti i paradigmi – ma c’entra anche l’idea di paese sulla quale si sta ragionando in chiave post covid e che prende in considerazione tutto, ma proprio tutto, tranne la vita e il futuro degli studenti universitari. Nove mesi di gestazione pandemica hanno partorito, su questo fronte, solo fantasmi.
“Siamo stati tenuti fuori dalle priorità del governo e dal dibattito pubblico”, conferma Enrico Gulluni, coordinatore dell’Udu, l’Unione degli universitari. “Un errore imperdonabile. Siamo rimasti prigionieri nello schermo del nostro computer, privati, di fatto, di ogni forma di presenza. Nella maggior parte dei casi ci hanno chiuso anche le biblioteche e gli spazi per studiare, dove pure sarebbe stato semplice rispettare le norme di distanziamento. Persino a settembre, quando le scuole hanno tentato di riprendere il cammino naturale in aula, il grosso degli studenti universitari è rimasto chiuso in casa. Per noi il lockdown non è mai finito. Mentre per elementari, medie e superiori si è messa in pratica ogni misura che potesse facilitarne la riapertura, per noi è stato deciso, a priori, che neanche ci si provava. Tanto che, da una nostra recente mappatura orientativa, ci risulta che il 70 per cento degli iscritti non ha mai rimesso piede in facoltà. Le uniche eccezioni hanno riguardato le matricole e i laboratori. Un esempio di quello che dico? A Pisa si è deciso di destinare un polo universitario alle lezioni delle scuole superiori. Iniziativa lodevole, certo, ma anche indicativa”.
Non nasconde l’amarezza, Enrico Gulluni, studente di Economia a Parma, 26 anni, che con il ministro Manfredi si è confrontato più volte, raccogliendo solo sterili annunci a cui non si è mai dato seguito. Stanco della strumentalizzazione sullo scontro generazionale pret a porter con cui certa grande stampa ha tentato di semplificare situazioni molto più complesse. Alle provocazioni hanno risposto e stanno rispondendo con maturità. Chiedendo attenzione e rispetto e un serio impegno ad alleviare i sintomi sociali ed esistenziali che, proprio per i ventenni, sono stati più difficili da sopportare. Gioventù in pausa, per la quale è stata bandita ogni forma di aggregazione, ogni possibilità di apertura verso il mondo, di viaggio per studio, formazione o vacanza, di relazione sentimentale. Privata di quello svago che pure rappresenta, per questa fascia di età, cibo per l’anima.
La popolazione universitaria è stata snobbata a tal punto che una parte consistente dell’esercito di fuorisede, per paura del contagio, certo, ma anche per le condizioni date (o, meglio, non date), ha deciso di restarsene a casa con i genitori, mettendo in stand by persino la propria scelta di vita. Una risposta spontanea all’anno sabbatico che la politica, miope per natura, si è presa sul tema. Senza capire che il miglior vaccino, per gran parte dei problemi sociali aperti dal covid, a partire dalla mancanza di personale sanitario, sarebbe proprio il prodotto umano di quelle aule.
Ma allora cosa chiedete per uscire dal cono d’ombra nel quale vi hanno cacciato? Due cose, una immediata e una di prospettiva, ci risponde il coordinatore Udu. “La prima, rendere gratuita la connessione dedicata alla didattica a distanza. Non capiamo perché questa misura sia stata promossa per la scuola e non per l’università. Mi sembra una discriminazione evidente. La seconda, cogliere l’opportunità posta dal dramma sanitario per resettare l’intero sistema. Nella legge di bilancio la no tax area è stata ampliata a 20mila euro, non basta. Abbiamo chiesto di arrivare a 30mila, e di alzare allo stesso livello il tetto Isee per i benefici allo studio. Di ripensare e superare il numero chiuso. Siamo fanalino di coda per numero di iscritti, ma i paragoni con i vicini europei hanno poco senso, se pensiamo che in Germania l’università è gratuita e in Francia la tassa annuale più o meno è di 200 euro”. Neanche la metà di quanto qui paghiamo al mese, in media, per tenere un bimbo all’asilo nido. Eccolo il divario che costringe, sempre più spesso, i nostri giovani studenti a emigrare verso paesi che investono nell’università, nella ricerca e nell’alta formazione (o a scappare comunque, subito dopo la fine del corso di studi). Eccola la prova schiacciante di un futuro che, nei piani di chi decide, non ha bisogno di lauree. E mentre altrove si agisce, qui, ormai, non se ne parla neanche più.