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Centinaia di migliaia, forse un milione: il numero esatto non aggiungerebbe nulla. L’evidenza è che la mobilitazione del sindacato è riuscita, ben oltre le aspettative. Giovedì 30 ottobre, studenti, docenti, ricercatori e gli altri lavoratori nel settore dell’istruzione hanno invaso pacificamente Roma dal centro alla periferia. Per dire no, con civiltà e determinazione, all’ennesimo scempio del governo Berlusconi. Insieme alla scuola e alla sanità, l’università è il settore più colpito dai provvedimenti del centro destra, tutti assunti senza confronto né con le parti sociali né all’interno del Parlamento.
“Abbiamo fretta”, ha detto il ministro Gemini. “Una cosa mai accaduta nella storia della Repubblica e non motivata dall’urgenza”, come sottolinea Marco Broccati, responsabile Università e Ricerca nella segreteria nazionale della Flc Cgil. Che il sistema universitario non funzioni come dovrebbe non è una novità. Tantissime sedi e migliaia di corsi di studio, il livello più basso di laureati in Europa rispetto al numero di studenti, quasi tutte le risorse utilizzate per la gestione ordinaria e pochissime per la ricerca. Secondo Tremonti, Gelmini & soci la soluzione è una sola: tagliare ulteriormente i finanziamenti pubblici, già inferiori dello 0,4 per cento rispetto alla media Ocse, e affossare definitivamente università e ricerca. Se vogliono sopravvivere, devono affidarsi ai privati, con buona pace dell’eccellenza scientifica e del diritto allo studio.
“Si spende male come in tutto il settore pubblico – argomenta Broccati –, però la cattiva spesa deriva dal fatto che, quando il finanziamento diminuisce, le spese fisse in percentuale aumentano, e arrivano a toccare il limite del 90 per cento imposto alle università per le spese di personale. Non c’è dubbio che si debba mettere mano ai meccanismi di finanziamento. Intanto, per stare nella media Ocse, dovremmo incrementare il fondo di almeno 4 miliardi di euro”. Invece il decreto legge 112, diventato legge n. 133 ai primi di agosto, riduce le risorse pubbliche erogate agli atenei dell’8 per cento da qui al 2012. A questo va aggiunto l’incremento percentuale dell’inflazione reale per i prossimi quattro anni, ottimisticamente prevedibile in un 4 per cento l’anno. Un totale del 16 per cento per l’intero periodo che, sommato ai tagli, significa riduzione reale del 24 per cento dei fondi per l’università. “Con un taglio di queste dimensioni – spiega Broccati – mantenere le medesime prestazioni obbliga a un elevato incremento delle tasse universitarie. Oppure, laddove non fosse possibile, ci sarà uno squilibrio strutturale del bilancio degli atenei, che non avranno più soldi per il funzionamento”.
Va inoltre considerato che la legge finanziaria per il 2009, che alla fine di settembre ha rivisto le tabelle del finanziamento pubblico per le università nel prossimo triennio, raddoppia di fatto i tagli: a fronte di un 2009 sostanzialmente pari a oggi, nel 2010 la riduzione è di 730 milioni di euro e nel 2011 è di 860 milioni. Siamo a un meno 15 per cento del finanziamento totale che, sommato all’inflazione, porta a circa un terzo in meno nel giro di tre anni.
Altro punto cruciale è il turn over: nei prossimi anni potrà essere sostituito un solo lavoratore (docente, tecnico e amministrativo) ogni cinque che andranno in pensione. Entro il 2015 due terzi degli attuali dipendenti lasceranno il lavoro. “Sostituirne uno su cinque – spiega ancora Broccati – significa progettare la desertificazione dell’università italiana, dove circa metà dell’offerta didattica è tenuta oggi in piedi da professori a contratto, cioè da esterni che hanno contratti di consulenza, perché non ci sono abbastanza docenti interni”. E intanto i dottorandi – come ci testimonia Claudia Ortu, collaboratrice di Rassegna e borsista nell’università di Cagliari – vengono buttati in aula senza avere la minima idea di quello che stanno facendo. “Se il blocco del turn-over è dettato solo da esigenze di risparmio – ipotizza la Ortu – è una scelta suicida. La mia esperienza dice che il corpo docente non è affatto sovra dimensionato rispetto agli studenti. Le aule ospitano 400 e anche 500 studenti nei primi anni. Cosa si impara in questo modo? Che senso critico si può sviluppare se non c’è la possibilità di un rapporto diretto con i professori? L’università sta diventando un superliceo. Ma sui contenuti le responsabilità sono anche di chi ci lavora. Questo dovrebbe essere oggetto di riforma”.
Intanto il provvedimento del governo non garantisce più l’offerta formativa e gli atenei dovranno chiudere corsi di laurea per mancanza di personale. Oppure, in alternativa, si produrrà ancora un precariato mostruoso e incontrollabile, a scapito della trasparenza e della qualità. Basta questo per scardinare l’assetto del sistema. Secondo Patrizio Di Nicola, docente nella facoltà di Scienza della comunicazione della Sapienza di Roma, i più colpiti non sono i professori di ruolo, quanto coloro che devono ancora entrare nell’università e soprattutto gli studenti. Prevedibilmente, infatti, si dovrà fare a meno di spendere per i laboratori, la ricerca, il benessere degli studenti e altre attività, come le summer school all’estero, che sono complementari alla didattica tradizionale. “Il rischio – ammonisce Di Nicola – è che l’università diventi sempre più un esamificio in cui i docenti sono chiamati soprattutto a tenere lezioni frontali”.
Ma la legge 133 aggiunge un terzo elemento: la possibilità di trasformare le università, enti di diritto pubblico, in fondazioni private. All’atto dell’eventuale trasformazione, lo Stato conferisce per intero al nuovo soggetto tutti i beni di proprietà dell’università. “Questo – avverte Broccati – significa che quando le università, per effetto dei tagli di personale e soprattutto di finanziamenti, nonavranno più soldi né per gli stipendi, né per la luce, né per pagare i fornitori, quella di trasformarsi in fondazioni sarà l’unica possibilità residua per potere alienare il proprio patrimonio e riuscire, così, a finanziare la propria sopravvivenza”. Ma le conseguenze per il personale non saranno certo positive, dato che uscirebbe dal settore pubblico e si vedrebbe applicato un contratto di diritto privato, probabilmente il meno costoso. Poiché anche i professori non potranno essere pagati dallo Stato per prestare la loro opera in un ente privato, si prospetta anche per loro la trasformazione in dipendenti di un’istituzione privata, con modifiche dello stato giuridico e del trattamento economico. Infine, a fare le spese dell’intervento del governo è ancora una volta la ricerca, colpita negli ultimi decenni da tagli progressivi delle risorse. A differenza di altri paesi in Italia le imprese che investono in ricerca sono pochissime.
In più, l’attenzione della politica è scarsissima, come testimoniano la povertà delle strutture e la carenza di fondi per la ricerca. Dunque, i tagli attuali non fanno che seguire una deriva che prosegue da vent’anni. “È evidente che per chi ha governato e chi governa – è l’amara constatazione di Patrizio Di Nicola – la ricerca non è una priorità. Forse non lo è neppure l’educazione. Del resto, le imprese non cercano i laureati e non valorizzano le risorse umane: sono interessate solo al basso costo della manodopera. Anche se nessuno lo dice apertamente, al nostro sistema non servono né laureati né la ricerca: non sono una priorità di questa nazione”. “Allora sarebbe stato meglio essere chiari – conclude il professore della Sapienza –: si sarebbero evitate le lotte per l’università di tutti e la moltiplicazione degli atenei e le risorse si sarebbero concentrate su trenta/quaranta atenei in grado di funzionare in maniera ottimale”. Broccati concorda: la logica delle riduzioni di risorse è praticata da anni. La differenza, in questo caso, è che le dimensioni dei tagli uccidono il sistema: “Inoltre – osserva il sindacalista –, abolendo il pubblico a favore del privato si sceglie un modello di istruzione che colpisce le pari opportunità e i diritti dei cittadini”. Per il 14 novembre il sindacato ha organizzato una mobilitazione nazionale in difesa dell’Università e della Ricerca. Obiettivo è l’abrogazione degli articoli su finanziamenti, turn over e fondazioni. Per ripartire da un confronto che finora non c’è stato.