Il 23 marzo del 1944 a Roma una bomba esplode colpendo un drappello di soldati tedeschi.

Muoiono 32 militari dell’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment Bozen. 

Un altro soldato morirà il giorno successivo, altri nove sarebbero deceduti in seguito. 

L’esplosione provocherà la morte anche di due civili italiani, Antonio Chiaretti, partigiano della formazione Bandiera Rossa, ed il tredicenne Piero Zuccheretti. 

Alle 22 e 55 del giorno successivo il comando nazista dirama alla stampa italiana il comunicato dell’avvenuta rappresaglia contro i ‘comunisti badogliani’: 10 italiani per ogni tedesco.

“Priebke e Hass - riporta l’Enciclopedia dell'olocausto - avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia. Per questa ragione, gli ufficiali della polizia di sicurezza selezionarono altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, insieme ad altri che o avevano preso parte ad azioni della Resistenza, o erano semplicemente sospettati di averlo fatto. I tedeschi aggiunsero al gruppo già selezionato per il massacro anche 75 prigionieri ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere la quota necessaria, essi rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici. Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che le 330 previste dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri”.

Il 30 novembre del 1944 il lavoro della Commissione Cave Ardeatine e dell’équipe diretta dal dottor Attilio Ascarelli porterà all’identificazione di 322 corpi, 13 rimarranno gli ignoti.

I lavori di esumazione e identificazione erano iniziati nel luglio di quell’anno.

Oltre all’identificazione delle vittime la Commissione riuscirà anche a stabilire la modalità di esecuzione: fino a quel momento si pensava che le vittime fossero state uccise a colpi di mitra, mentre le autopsie riveleranno la loro uccisione una per volta attraverso un colpo di pistola alla nuca a distanza molto ravvicinata (“Calcolai quanti minuti erano necessari per la fucilazione d’ognuna delle trecentoventi vittime - dirà successivamente Herbert Kappler, capo della Gestapo a Roma - Calcolai anche le armi e le munizioni necessarie. Cercai di rendermi conto di quanto tempo avessi a mia disposizione. Divisi i miei uomini in piccole squadre che dovevano alternarsi. Ordinai che ogni uomo sparasse solamente un colpo, specificando che la pallottola doveva raggiungere il cervello della vittima attraverso il cervelletto, in modo che nessun colpo andasse a vuoto e la morte fosse istantanea”).

“Nelle galleria - riporta il sito https://www.mausoleofosseardeatine.it/ - si presentano due enormi cumuli di cadaveri ammucchiati gli uni sugli altri fino a 1,5m di altezza. Le esalazioni dovute alla decomposizione rendono l’aria irrespirabile.
Si decide, su indicazione di Ascarelli, di esumare i corpi uno per volta, mantenendo l’ordine di adiacenza: ogni salma estratta viene numerata e portata al reparto medico-legale. Qui viene ricomposta e riceve gli uffici religiosi da un prete e un rabbino. Dato l’avanzato stato di decomposizione e lo stato in cui versano i corpi (39 corpi si ritrovano decapitati) le operazioni di identificazione si basano su approssimazioni successive nella compilazione di una scheda: si parte dai tratti fisici e anatomici per poi passare agli indumenti e agli oggetti che si ritrovano sui corpi. Dopo la compilazione della scheda si cerca di identificare ciascuna vittima con l’aiuto dei parenti. A questo punto ogni salva viene chiusa in una bara e allineata lungo le gallerie”.

“Non ricordo come - racconterà Giulia Spizzichino anni dopo - ma a un certo punto si venne a sapere che alle Fosse Ardeatine c’era un numero impressionante di cadaveri. Non si sapeva esattamente chi vi fosse sepolto, ma era chiaro che si trattava di prigionieri prelevati dalle carceri dopo l’attacco di via Rasella. Erano loro gli scomparsi, e poi c’era stato l’annuncio sul giornale della rappresaglia eseguita. Il comando tedesco non aveva mai comunicato i nomi delle persone trucidate, ma le famiglie che non avevano notizie dei propri cari non si facevano illusioni circa loro sorte. Chi andò alle cave a vedere riferì che era impossibile solo pensare di dare un nome alle vittime. Quei corpi erano rimasti là sotto per quasi tre mesi ed erano tutti ammassati a formare un unico groviglio. Qualcuno propose di chiudere l’entrata, rendendo il luogo una grande tomba comune. Le famiglie degli scomparsi però non lo accettavano. Le figlie del generale Simoni, per esempio, si opposero violentemente, obiettando che in quel modo non avrebbero mai saputo se il loro padre fosse lì dentro. Quando l’odio produce effetti tanto devastanti, per averne ragione non c’è che l’opera dell’amore. Chi si offrì di compierla fu un medico ebreo, il dottor Attilio Ascarelli. Un uomo stupendo, non ho altri modi per definirlo, che impegnò nella difficile impresa tutta la sua passione, la sua professionalità. Voleva attribuire un volto a ciascuno di quei miseri resti. Iniziò a separare i corpi uno per uno, dato che si erano attaccati. Attraverso i ritagli degli abiti e gli oggetti che avevano addosso - i documenti erano stati loro sottratti - riuscì un po’ alla volta a ottenere il riconoscimento di quasi tutti. Naturalmente anche la mia famiglia fu coinvolta, tanti dei nostri cari mancavano all’appello, ma io andai sul posto poche volte, mia madre non voleva condurmi con sé. Ero sempre triste ogni volta che tornavo alle Fosse Ardeatine! Ricordo che c’erano tanti pezzetti di stoffa lavati e sterilizzati, appesi a dei fili con le mollette. Erano numerati, per effettuare un riconoscimento bisognava annotarsi quei numeri. All’epoca i vestiti venivano fatti su misura dal sarto, non c’erano abiti confezionati come adesso, quindi le donne di casa tenevano da parte degli avanzi della stoffa per poterla utilizzare per le riparazioni. Per noi, come per tanti, è stata una fortuna. Solo così abbiamo potuto ritrovare i nostri familiari, li abbiamo riconosciuti attraverso la comparazione dei tessuti. Un pezzetto di stoffa per il nonno Mosè, un altro per lo zio Cesare. Mio cugino Franco, i suoi sogni e i suoi presentimenti: tutto in qualche lembo di tessuto! E ogni volta quanto dolore, quanto quanto dolore…”.