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The show must go on, lo spettacolo deve continuare. In tempi di pandemia e distanziamento, qualcuno deve pur averla detta questa frase. Difficile capire se a pronunciarla sia stato l’avido circolo degli impresari del Pallone, un pool ministeriale mosso dall’istinto del panem et circenses 2.0, o se la spinta sia arrivata dal basso e a parlare siano stati i tifosi con la scimmia sulle spalle, in piena crisi di astinenza da un po’ di calcio e di normalità.
Fatto sta che nelle segrete stanze del potere, dopo aver valutato tutti i pro e i contro della situazione, è stato dato il via libera alla ripresa di tutti i campionati e delle coppe. La stagione è salva, almeno a livello di verdetti, ma a che prezzo? Al tifoso è stato somministrato questo scialbo metadone senza emozioni, in una coda di tornei giocata con lo spirito delle amichevoli di lusso, tra spalti vuoti oscenamente ridisegnati da improbabili coreografie televisive, caldo africano da media stagionale, pause rinfrescanti chiamate fastidiosamente cooling break e tanta, tanta stanchezza. Un supplizio senza sussulti che ci ha regalato un’unica "noiosa" certezza, diventata di colpo eccezione a conferma di questo incerto 2020: lo scudetto alla Juventus e, subito dopo, la sua eliminazione dalla Champions.
Ma ai tempi del distanziamento fisico imposto per legge, cosa ne è stato dello sport di contatto per eccellenza? Perché questo è il calcio, non tanto per il contatto sul campo, quanto per quello che provoca tra la gente. Il tifoso in piena trance agonistica può restare composto e in mascherina, senza abbracciare, toccare o gridare? E giocarlo vietando gli assembramenti, per la ragione sociale stessa del calcio, non è violare una regola sacra del pallone, quanto è vero che il dischetto del rigore si disegna a 11 metri dalla riga di porta?
“Dopo anni di playoff finiti con le pive nel sacco, quest’anno che siamo finalmente saliti in serie B lo abbiamo fatto a stadio deserto”. A rispondere alla nostra domanda retorica è un amico che preferisce restare anonimo, con un passato da uomo di curva della Reggiana. Oggi frequenta ancora gli spalti, spesso anche in trasferta. Ma ha cambiato settore, come è successo a tutti nelle fasi della vita. Il cuore però, quello non è cambiato. “La sensazione di questa promozione attesa da anni è stata un mix di gioia e freddezza, perché ce la siamo vista in televisione. La sera della promozione, incoscientemente incuranti della situazione, abbiamo obbedito a un richiamo ancestrale e siamo andati davanti allo stadio a salutare la squadra che usciva con il trofeo dei playoff in mano, senza che ci fosse stato alcun tam tam sui social o segreto appuntamento. ‘Adesso andiamo allo stadio che vedrai che qualcosa succede’, ho detto al mio amico”.
Del resto il sacro e il profano finiscono spesso per mescolarsi nella mente del tifoso. Pensate in quella di un tifoso che è disposto a star seduto tre ore, in una sera di novembre, sugli spalti dello stadio di Reggio Emilia, con il freddo che fa, per guardarsi la gara con il Fanfulla o con il Sasso Marconi. “Fede cieca”, commenta. E anche su questa fede cieca il covid è passato come un diavolo, decapitando passioni e umanità, sradicando abitudini consolidate e riflessi condizionati. “Noi abbiamo avuto una realtà qui in Emilia, per gravità e aumento repentino del numero dei contagi e per la pressione esercitata sul sistema sanitario, seconda solo alla Lombardia. Qui a Reggio abbiamo rischiato di avere un ospedale da campo militare. Una situazione molto pesante, tanti morti, noi tutti chiusi in casa. La partita era passata totalmente in secondo piano. Ma nel momento in cui la situazione si è normalizzata e sono ripresi i playoff, ho sperato – ecco la follia del tifoso – ho sperato che aprissero le porte dello stadio. L'ho sperato fino alla fine, anche se sapevo che era una stupidaggine”.
Questo è l’amore ai tempi del covid. Difficile, contrastato. In questo sport di contatto politico e sociale, incubatore e moltiplicatore come poche altre vicende umane di tutti quegli elementi e quei tic che nutrono e declinano la nostra natura terrena. Dalle lotte di campanile alla torbida invidia, dall’attrazione per il bel gesto atletico, alla genialità, all’arte, all’istinto per la bellezza, la rabbia e la passione. Anche – e soprattutto per questo – servire il surrogato di acqua di cicoria a chi chiedeva dosi massicce di caffè Borghetti ha lasciato tutti un po’ scontenti, avvitando il movimento pallonaro in una mini crisi sentimentale. Un’altra maceria, senz’altro la meno ingombrante, di questa pandemia. Anche questa andrà rimossa nella ricostruzione del dopoguerra al virus. Un’occasione per fare meglio di prima. Perché il covid ci ha insegnato che anche questo calcio moderno un po’ senz’anima, pieno com’è di meteore e saltimbanchi, in realtà un’anima continua ad averla. Ed è quella, grande, dei suoi tifosi.