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Ci sono voluti quasi 30 anni per introdurre in Italia – dopo la Convenzione dell’Onu del 1984 ratificata però solo nel 1989 – il reato di tortura, con un lungo e tortuoso iter parlamentare. E ora Fratelli d’Italia vorrebbe proporre un colpo di spugna su quello che a tutti gli effetti rappresenta un elemento minimo di civiltà giuridica.
Con questo obiettivo nel novembre scorso un gruppo di deputati del partito di Giorgia Meloni (prima firmataria Imma Vietri, ma già la premier aveva presentato una proposta simile nel 2018) ha presentato un disegno di legge che punta a cancellare due articoli del codice penale: il 613 bis (che punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chi, “con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza”); e il 613 ter che condanna anche l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura. Rimarrebbe solo l’articolo 61, che però “retrocede” la tortura a mera “aggravante”. Inutile aggiungere che l’Italia sarebbe l’unico paese al mondo che, una volta introdotto questo reato, lo abolirebbe.
Dura, insieme a quella di altre associazioni e di singole personalità come non a caso Ilaria Cucchi, la presa di posizione della Cgil: "Aver introdotto il reato di tortura nel nostro ordinamento è segno intangibile di civiltà e democrazia e come tale va assolutamente mantenuto". Così in una nota i segretari confederali Daniela Barbaresi e Giuseppe Massafra.
Per i due dirigenti sindacali "suscita una profonda indignazione la giustificazione addotta dai Parlamentari che lo hanno presentato: il reato di tortura impedirebbe ai lavoratori di polizia di svolgere il proprio lavoro. Si tratta di un'ipotesi di provvedimento grave che rappresenta un arretramento culturale, politico e giuridico, a maggior ragione mentre si sta avviando il processo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere".
Inoltre, sottolineano Barbaresi e Massafra, "emerge una preoccupante concezione del ruolo delle forze di polizia e delle forze armate, fondata su una visione autoritaria e militarizzata della società, che le mette in contrapposizione con il resto della popolazione, divarica il rapporto di fiducia con i cittadini e rischia di incrinare la tenuta democratica del Paese”. “La tutela delle forze di polizia – aggiungono – si realizza attraverso la difesa dello Stato di diritto e non mettendo in discussione il reato di tortura, il cittadino in qualsiasi condizione giuridica si trovi va tutelato nei suoi diritti fondamentali senza dover subire vessazioni e violenza".
Le lavoratrici e i lavoratori in divisa si tutelano in un altro modo: "Serve un riconoscimento della loro capacità professionale garantendo le necessarie risorse economiche per i rinnovi contrattuali, per la formazione continua e permanente, per realizzare un piano di assunzioni che, riportando gli organici alla loro giusta dimensione ed eliminando turni di lavoro massacranti, garantisca - concludono Barbaresi e Massafra - l'efficienza del servizio di sicurezza nel rispetto dei contratti collettivi e nella piena tutela dei loro diritti".
Forse si ricorderà che la spinta all’approvazione del reato che si intende abolire fu data dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che nel 2015 condannò l’Italia per la condotta tenuta da molti agenti durante il G8 di Genova del 2001, soprattutto durante l’irruzione nella scuola Diaz. All’epoca il vicepresidente del Consiglio era Gianfranco Fini che espresse “solidarietà” alle forze dell’ordine a prescindere dall’accertamento dei fatti: a volte i “destri” ritornano.