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È stata presentata il 25 ottobre scorso l'indagine annuale sui maggiori gruppi mondiali e italiani nel settore delle telecomunicazioni, curata da Mediobanca. Si tratta dell’ennesimo studio che mette in evidenzia quanto sia in rapida espansione il gap tra operatori italiani e big stranieri (europei e mondiali), in termini di redditività. Un trend che in Italia, solo nel primo semestre dell’anno, ha visto bruciare 600 milioni di ricavi.
Una tendenza che affonda le sue radici, lo diciamo da tempo, in una competizione al ribasso tra gli operatori delle telecomunicazioni, giocata tutta sui prezzi da offrire ai consumatori, nella totale assenza di un progetto di industrializzazione per questo settore che passi attraverso un’idea diversa di mercato. Questo modello però non produce i suoi effetti negativi solo sui conti delle imprese di tlc, ma danneggia gravemente gli interessi generali del Paese. Perché un modello che brucia 14 miliardi di ricavi tra il 2010 e il 2021 (-3,7% medio annuo, con il mobile a -5,0%, il fisso a -2,5% e una flessione confermata anche nel primo semestre 2022 dai ricavi domestici dei principali operatori italiani) oltre a non fare gli interessi del settore, e conseguentemente delle lavoratrici e dei lavoratori impiegati (che pagano per questo un prezzo altissimo), è in controtendenza rispetto a quanto accade nel resto d’Europa e del mondo, dove i margini di redditività continuano ad aumentare progressivamente. Con essi, investimenti e sviluppo.
A pesare, nella definizione di questi risultati in Italia, crediamo ci sia l’eccessivo “affollamento” dovuto alla presenza di un numero maggiore di operatori, costantemente impegnati in una “guerra dei prezzi” per contrarre le tariffe telefoniche (-20,5% rispetto al -4,9% della media europea) e dunque attrarre più utenti. Una dinamica che ha avuto certamente dei riverberi positivi per i consumatori, sotto il profilo delle tariffe sebbene si sia tradotta spesso in qualità dei servizi non sempre all'altezza, ma che affida esclusivamente al mercato la regolazione del sistema, mettendo in secondo piano la necessità di avere una strategia di politiche industriali che orienti gli investimenti e garantisca l’accesso a internet a tutti i cittadini italiani.
La lettura di questi dati deve fare riflettere allora su quello che a nostro avviso continua a essere il tema vero: manca, in Italia, un soggetto che riesca a dare un indirizzo complessivo di sviluppo. Cosa, questa, che fanno tipicamente le aziende integrate. Accade così nel resto d’Europa, dove il mercato è ugualmente liberalizzato, ma due soggetti, Orange in Francia e Deutsche Telekom in Germania rappresentano il perno intorno al quale si muove tutto il sistema, con la garanzia data dalla presenza dello Stato che ne orienta scelte e politiche di sviluppo.
Noi continuiamo invece a percorrere la direzione opposta, con miope tenacia, con un progetto sempre meno chiaro che vede nella separazione tra rete e servizi di Tim il massimo della sua espressione. E lo facciamo in un momento in cui, la richiesta di connettività cresciuta con la pandemia da una parte, e le risorse messe a disposizione dal Pnrr dall’altra, rappresenterebbero un’occasione unica per invertire questa tendenza distruttiva. In mezzo ci sono le persone in carne e ossa, che per il 45% ancora arrancano in una condizione di arretratezza tecnologica, tanto anacronistica quanto insostenibile, perché collocate all’interno delle aree più svantaggiate del Paese, dove il mercato non ha certo interesse a investire.
Tra queste, le lavoratrici e i lavoratori del settore, che stiamo condannando a essere tagliati fuori anche da un'idea di lavoro fortemente qualificato e dunque con prospettive di sviluppo. Perché se anche il dibattito che continua a esserci rispetto alla mano d’opera che servirà per costruire la rete (unica?), si avvita intorno alla necessità di scavare micro-trincee per posare i cavi e rinunciare alle intelligenze che lavorano sulla gestione e lo sviluppo di dati (dalla creazione di software, al cloud, fino alla cybersecurity), abbiamo già perso sotto ogni aspetto, condannando il nostro Paese a essere un grande mercato da conquistare, in cui anche la richiesta di mano d’opera sarà sempre più “povera”.
Infine, ci poniamo il problema di chi, in uno scenario competitivo che è ormai mondiale, rappresenterà il nostro Paese, in Europa e nel mondo. Usa e Cina rappresentano due vere e proprie superpotenze, (con ricavi miliardari a tre cifre), seguite da Deutsche Telekom. L’idea di rinunciare ad avere il nostro campione nazionale, spacchettando Tim, non ci sembra una grande intuizione. Perderemmo il controllo su un altro asset strategico, condannando il nostro Paese alla marginalità nel confronto internazionale.
Barbara Apuzzo è responsabile Politiche e sistemi integrati di telecomunicazione Cgil
Riccardo Saccone è segretario nazionale Slc Cgil