Un detenuto va a casa in permesso e stenta a riconoscere gli oggetti in uso nella vita quotidiana, un altro si vede per intero nello specchio di un camerino teatrale e stenta a riconoscere sé stesso, un altro stenta, ma per il caldo soffocante, e si inventa un condizionatore ad acqua e ventilatore, altri ancora improvvisano un incontro tra Pinocchio e il Gatto e la Volpe degno di attori professionisti.
In questi giorni nei quali sentiamo parlare di carceri per il ripetersi di drammatici episodi di suicidi – e per un assai discusso decreto del governo – portiamo alla luce un esempio virtuoso di come il carcere possa adempiere alle sue originarie funzioni, ricordandoci, se ce lo fossimo dimenticati, che i detenuti non sono solamente numeri disumanizzati, ma, al contrario, persone in carne, ossa e umanità.
L’esempio è quello del laboratorio teatrale condotto nel carcere romano di Rebibbia dalle maestre e registe Emilia Martinelli e Tiziana Scrocca, organizzato dall'Accademia Stap Brancaccio che partecipa al Circuito nazionale di teatro in carcere. Un’esperienza che prosegue da quattro anni e la cui testimonianza ci è riportata nel podcast dalle stesse Martinelli e Scrocca.