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Le mafie si sono ormai ritagliate un posto d’onore alla nostra tavola, immuni da ogni pandemia, stagnazione, tensione o crisi economica. All’opposto, la criminalità mafiosa sembra stare sempre più a suo agio nell’Italia del buon cibo. Nata dalla terra, nella terra la mafia pare aver ritrovato la sua vocazione, oltre che una delle sue maggiori entrate, con un volume d’affari in continua crescita secondo solo al traffico di droga. In base alle ultime stime del 6° Rapporto sui crimini agroalimentari (Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare 2019), il fatturato delle cosiddette agromafie, in continuo aumento, è oggi quantificabile in almeno 24,5 miliardi di euro, pari a circa il 10 per cento del fatturato complessivo criminale del Paese, non senza pesanti ricadute sulla nostra economia e sull’intera collettività. Un piatto da portare in tavola decisamente ricco, non c’è che dire, tanto da poterlo agevolmente spartire tra più commensali.
Attorno alla tavola dell’agromafia non solo ci si siede con il vestito buono, quello della mafia 3.0, ma non si nega un posto o un pasto completo a nessuno: cosa nostra, la stidda, la camorra e la ’ndrangheta, tutte sedute. Dall’olio extra vergine d’oliva di Matteo Messina Denaro, alla vendita di mozzarelle di bufala del figlio di Sandokan, il potente Francesco Schiavone, alle infiltrazioni nel settore ortofrutticolo del clan Piromalli o dei famigliari di Totò Riina. Non c’è anello della filiera agroalimentare su cui le mafie non abbiano messo e continuino a mettere le mani, dividendosi settori, compiti e ruoli: a cosa nostra e alla stidda (coadiuvate da organizzazioni criminali anche straniere) sono andati gli affari locali (dalle guardianie al caporalato, al confezionamento dei prodotti, alla loro vendita, ai box per depositarli, sino allo smaltimento della plastica, senza trascurare le conseguenze per l’ambiente dovute alle discariche abusive e alle illegalità compiute nella gestione dei rifiuti, che fanno registrare migliaia di ecoreati all’anno); alla camorra, per la precisione ai casalesi, sono andati i trasporti, mentre alla ’ndrangheta è andata la disponibilità dei camion su cui far viaggiare la merce. Controllare il trasporto su gomma significa controllare gran parte dell’economia, non è un caso che le diverse organizzazioni criminali si siano da tempo accordate nel gestire questo servizio, perché di questo si tratta, con vere e proprie agenzie di brokeraggio che decidono cosa trasportare, quando e a che prezzo.
L’esperienza dello stare a tavola è prima di tutto un momento di condivisione, verrebbe da dire: aggiungi un posto a tavola, infatti è stato aggiunto. Già, perché l’agromafia ha insegnato che a volte fare squadra è molto più redditizio che farsi la guerra. Dal produttore al consumatore, nel galateo dell’apparecchiamento mafioso non mancano condizioni di lavoro disumane e salari da fame per controllare i prezzi dei prodotti e speculare sulla loro commercializzazione. Tutto prende inizio dalla terra, a cominciare dai soprusi contro i proprietari più piccoli e dallo sfruttamento del lavoro di uomini e donne quasi invisibili, la cui vita in genere resta confinata nel silenzio di occhi che non vogliono vedere. A ogni latitudine del Paese, agromafia e caporalato sono due facce della stessa medaglia, per inciso, non solo al Sud. Dal Veneto alla Sicilia, come ben hanno mostrato i dati raccolti nel Quinto Rapporto Agromafie e Caporalato realizzato dall’osservatorio Placido Rizzotto per la Flai Cgil (2020), che fotografa la situazione degli ultimi due anni, dall’ottobre 2018 all’ottobre 2020, sono più di 180.000 i lavoratori occupati nel settore agricolo soggetti a fenomeni di caporalato o che si trovano in una situazione di estrema vulnerabilità. Pur tuttavia c’è ancora chi considera il loro sfruttamento come il risultato delle dinamiche di mercato.
In assenza di dati sicuri sull’estensione del fenomeno, per ovvie ragioni, sappiamo comunque che il lavoro irregolare in agricoltura è ovunque in costante aumento, e che sebbene riguardi anche i lavoratori italiani a pagare il prezzo più alto sono in genere quelli stranieri, e tra questi le donne (dopo il lavoro domestico e la cura l’agricoltura è il settore che assorbe la più parte del lavoro delle migranti). Nella mia terra, la Sicilia Orientale dell’oro rosso (Borrometi 2018) gravano le guardianie imposte dai mafiosi, che costringono molti piccoli proprietari ad assumere con mansioni di guardiani gli appartenenti ai clan (con stipendi attorno alle 1.000 euro, oltre alle molte regalie). E da quando la coltivazione in serra ha destagionalizzato la semina e la raccolta, è divenuto indispensabile contare su molte braccia tutto l’anno.
Ampliando gli orizzonti non si può che considerare quanto il tema delle infiltrazioni mafiose nella filiera alimentare sia una questione che da anni aspetta di essere posta in primo piano nell’agenda politica, e non sia più rimandabile oggi: le organizzazioni criminali approfittano di ogni situazione di debolezza per crescere e farsi più forti, si nutrono delle nostre stesse fragilità. La complessità del fenomeno agromafia richiede risposte articolate che chiamano in campo nodi delicati, da quello della tutela del lavoro e dei lavoratori a quello della gestione dei flussi migratori, dalla difesa della salute dei consumatori a quella dell’ambiente. Qualcosa è stato fatto ma siamo solo all’inizio del tragitto, ed è necessario non perdere il passo. In tempi di pandemia, e alla vigilia dell’arrivo di grandi flussi di denaro nel nostro Paese, pare sempre più urgente trasformare la narrazione sull’agromafia in dettami legislativi incisivi, completi e definitivi, per impedire che le mafie non solo continuino a sedersi alla nostra tavola ma l’apparecchino con tovagliati ancora più fini.
Paolo Borrometi, giornalista, vicedirettore Agi