PHOTO
Questo reportage fa parte di Collettiva Academy, il progetto di collaborazione tra la redazione di Collettiva e gli studenti del corso di laurea in Media, comunicazione digitale e giornalismo dell’Università La Sapienza di Roma. Gli autori sono glistudenti che hanno partecipato al nostro laboratorio di giornalismo narrativo.
Angela, 50 anni, vive in un paesino di montagna. Figlia, moglie, madre ed ex impiegata, dal 2021 si occupa a tempo pieno di sua madre affetta da demenza senile. “Dopo la morte di papà, mamma ha deciso di continuare a vivere da sola. Per molto tempo è andato tutto bene. Poi, i primi sintomi e la diagnosi. Ho deciso di lasciare il lavoro per dedicarmi a lei. Non potevo fare entrambe le cose, mio fratello lavora ed è vedovo, non mi andava di ‘parcheggiarla’ in una casa di riposo. Mi sarei sentita in colpa. Ti dico, è stato un po’ come chiudere un capitolo e non aprirne un altro. Non lavoravo da tempo ed ero felice di aver trovato lavoro, più per le amicizie che per i soldi. La vita di paese può essere noiosa. Con il tempo ho preso le misure, ma tutt’oggi vivo senza guardare troppo oltre la finestra. In tutti i sensi”. E scoppia a ridede.
La rete invisibile
Angela è una caregiver, e probabilmente non lo sa. Non sa di far parte di una rete di assistenza invisibile composta da circa 3 milioni di persone nella fascia dai 18 ai 64 anni, sulle cui spalle poggia un bel pezzo d’Italia. Sono circa 13 milioni le persone con disabilità nel nostro Paese. Angela è una dei tanti e delle tante che in molti casi ‘sacrificano’ la propria vita per prestare cura, e che non fanno mancare impegno e amore. A mancare sono spesso le competenze, la consapevolezza della propria condizione, il coraggio di ammettere le difficoltà. Ma soprattutto il riconoscimento di questa figura e le relative tutele. Una mancanza grave, se si considera che in altri paesi dell'Unione europea sono previste tutele specifiche: vacanze assistenziali, benefici economici, finanziamenti previdenziali.
Norme regionali e leggi di bilancio inquadrano la figura del caregiver come quella persona che assiste ‘informalmente’ un familiare non autosufficiente. Un'assistenza spesso difficile da misurare con il ticchettio dell'orologio, come emerge dalla survey di Cittadinanzattiva del 2021: più di un terzo del campione non è in grado di quantificarla in ore, forse proprio perché si tratta spesso di un impegno costante o ripetitivo. Più che il numero di ore, gli elementi utili a definire il caregiver sono le competenze accumulate nel tempo, e quindi le molte attività che lo impegnano giornalmente: dall’igiene alla supervisione delle cure e delle condizioni di salute, passando per la gestione delle pratiche burocratiche e molto altro. Un lungo elenco che accomuna sia chi vive la stessa condizione di Angela, sia cittadini più giovani che diventano genitori e caregiver nello stesso momento.
Come Francesco Cannadoro e sua moglie Valentina, giovani genitori del piccolo Tommaso, nato con una malattia neurodegenerativa che li ha portati ad acquisire svariate competenze, per le quali “siamo degli operatori sanitari a tutti gli effetti”. La coppia ha iniziato a raccontare la loro vita da caregiver sui social “non per apparire, ma per cercare più persone possibili che ne sapessero più di noi sulla disabilità”.
Oggi Francesco riesce a lavorare come content creator, autore e blogger ma non nasconde le difficoltà incontrate, tanto da lui quanto da Valentina, nel conciliare vita e lavoro: “Facevo il barista e persi il lavoro durante un ricovero di 7 mesi, mia moglie era responsabile di 3 negozi, poi mollò”. Le loro sono difficoltà che incontrano un terzo dei caregiver in Italia nella fascia 18-64 anni. A queste difficoltà del ‘presente’ si affiancano alcune difficoltà del futuro, come la delicata questione del ‘dopo di loro’: “Quando Tommy non ci sarà più, Valentina sarà una donna ultracinquantenne fuori dal mondo del lavoro da anni, privata della sua unica ragione di vita degli ultimi vent’anni, senza aver maturato una pensione, e inesperta nel mestiere, perché non aggiornata”.
Una questione (anche) di genere
Come se non bastasse, il tema dei caregiver intreccia anche le questioni di genere. L’Istat ci dice che nel 2018, nella fascia d’età 45-64 anni, sei caregiver su dieci sono donne. Sintomo del persistere di un vecchio retaggio culturale che vede la donna come responsabile delle attività di cura della famiglia. E non è tutto, perché il Centro Mege dice anche che la donna caregiver lavora di meno ed è “spesso costretta a lavorare part-time o a ritirarsi anticipatamente dal lavoro”.
Nella quotidiana assistenza di un caregiver, maggiormente nel caso in cui si tratti di donne, le emozioni negative fanno spesso da protagoniste: l’impotenza e la frustrazione del genitore che nulla può nei confronti della malattia di un figlio, la tristezza e l’angoscia di chi poche volte sceglie e tante volte accetta una vita densa di stress, ansia, preoccupazione. Una fragilità emotiva, tra l’altro, che si traduce spesso in una sorta di ‘masochismo’, perché un terzo dei caregiver italiani antepone la salute dell’assistito alla propria. Eppure, “non puoi prenderti cura al meglio di qualcuno se non sei al tuo meglio. Se la persona sente il peso portato dalla famiglia, allora arriverà a sentirsi un peso” dice ancora Cannadoro, che lamenta soprattutto l’insufficienza delle attuali disposizioni legislative in materia di disabilità.
Insufficienza e “arretratezza”, aggiunge Simonetta Suaria del patronato Inca-Cgil: “La legge 104 è del ‘92, ma il mondo è cambiato. Nel tempo, le modifiche sono state introdotte soprattutto in via giurisprudenziale” e questo lascia intendere una certa indifferenza del legislatore. Eppure le criticità sono molte: “i due anni di congedo straordinario riconosciuto al familiare caregiver spesso diventano limitanti, potrei avere più soggetti da assistere nel corso della vita.
Dovrebbe essere fino allo stato di necessità. Bisognerebbe valutare caso per caso, gravità per gravità e situazione familiare per situazione familiare e trasformare gli indennizzi economici in agevolazioni o servizi territoriali e sociali, perché, in maniera provocatoria, il caregiver familiare non dovrebbe esserci. Dovrei poter scegliere se affidare l’assistenza ad una persona estranea, ad una struttura o se farlo di persona. Devo avere un’alternativa, non deve essere un ricatto”.
Su questo è d’accorso anche Anna Maria Comito dell'Associazione di familiari Co.Fa.As. “Clelia”: “Serve il riconoscimento giuridico del lavoro di cura, che il caregiver sia informato e sostenuto sia per le emergenze che per un banale momento di recupero. Occuparsi del familiare assistente vuol dire cittadinanza, è nell'interesse di tutti, non si sa mai cosa ci riserva la vita”.
Nessuna retorica
Nell’ottobre 2022 l’Onu ha condannato l’Italia proprio per la mancanza di riconoscimento e di tutele adeguate per i caregiver, parlando di una ‘discriminazione per associazione’ vissuta dal caregiver a causa del suo legame con una persona con disabilità. Ad un anno dalla condanna, il governo ha istituito un “Tavolo tecnico per l’analisi e la definizione di elementi utili per una legge statale sui caregiver familiari”, ed è al lavoro su due leggi-delega, la 227/2021 e la 33/2023, che riguardano proprio disabilità e anziani.
Insomma, dati, associazioni e caregiver chiedono aiuto. Chi convive con una disabilità non deve sentirsi un peso e chi offre assistenza, deve farlo libero dall’amarezza di un futuro in bilico o di un presente infelice. Un aiuto che, allo stesso tempo, possa spegnere la retorica del “genitori guerrieri e bambini speciali”. “Dal momento in cui si pensa a me genitore come un guerriero, allora se ne consegue che io non abbia bisogno di una mano” ripete Francesco Cannadoro, che rifiuta anche la narrazione stereotipata opposta, il ‘pietismo’. “Invece che passare pubblicità tristi in cui si dice ‘aiutateli stanno male’ dovrebbero scrivere ‘guarda com’è felice, aiutalo a rimanere così'".
Quella delle narrazioni sul tema è una questione importantissima che meriterebbe spazio a sé. In assenza della dovuta attenzione e conoscenza dell’argomento, il racconto stereotipato ha vita facile. Così, non soltanto si è condannati all’invisibilità e alla frustrazione, ma non è possibile neanche farsi e far conoscere la disabilità per quella che realmente è. “Se mettessimo davanti le persone - conclude il papà del piccolo Tommaso - potremmo dunque conoscerla ed è proprio dalla conoscenza che arriva l’inclusione”.