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Chissà se qualcuno, tra quella folla di cittadini albanesi a bordo del mercantile Vlora, quell’8 agosto del 1991, mentre il porto di Bari si materializzava all’orizzonte, avrebbe mai immaginato quello che sarebbe successo quasi trent’anni dopo. Ci fu un tempo in cui, vista dall’Albania, l’Italia incarnava Lamerica, la terra delle opportunità, una meta dove incontrare il futuro. Questa settimana un gruppo di coraggiosi e giovanissimi medici e infermieri albanesi ha raggiunto Brescia, dove rimarrà per un mese, per aiutarci ad agguantarlo il più in fretta possibile, il futuro. Questa parola, ormai, ha un solo significato: la fine dell’incubo coronavirus.
Un gruppo di giovani donne e uomini straordinari, freschi di laurea, ha lasciato il proprio Paese, dove i morti per Covid, accertati all’inizio di questa settimana, erano 11, e si è calato nell’occhio del ciclone, agli Spedali Civili della provincia lombarda, una delle zone in cui il virus si è manifestato con maggiore aggressività, portandosi via quasi 1400 vite. Scrivendo, in questo dramma collettivo, una delle poche pagine che ci ha restituito un po’ di conforto e un po’ di speranza. Un gesto concreto di solidarietà e di generosità che non dimenticheremo e che ha seguito il coraggio e l’altruismo dimostrato al nostro Paese, nelle scorse settimane, da altri volontari cubani, russi e cinesi.
Nessuno si salva da solo. La sintesi di una semplice e inconfutabile constatazione che ci ha lasciato Enrico Berlinguer: “Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno”. Agire insieme tra popoli e tra esseri umani, è questa la lezione più importante che torna a impartirci la violenza del virus e il suo impatto devastante nelle nostre vite e nelle nostre coscienze. Un concetto rimasto vittima, per troppo tempo, di una politica ottusa che, asservita al dogma del rigore, ha mascherato l’egoismo da austerità, giustificando così un decennio di tagli sufficienti a terremotare le infrastrutture sociali. Consegnandoci, proprio nell’ora più difficile, una sanità ridotta all’osso, che sta tenendo solo grazie alla professionalità e al sacrificio dei lavoratori del settore.
Ma un altro mondo è possibile, se in tanti si sono mobilitati. Quei giovani albanesi, ultimi in ordine di tempo, di una lunga catena di empatia nella quale non dimentichiamo le migliaia di medici che dalle regioni del meridione sono corsi al Nord per aiutare i loro colleghi in difficoltà. Né dimentichiamo tutte le associazioni come Emergency, Medici Senza Frontiere, Action Aid e tante altre che stanno fornendo un sostegno importantissimo alla causa. E non dimentichiamo tutti i lavoratori essenziali, nessuno escluso. E ogni singolo cittadino che agisce con senso di responsabilità, restando a casa.
Nessuno può fare il furbo. Nessuno può pensare di farcela, lasciando gli altri in difficoltà. Per una volta è accaduto: il virus ci ha inchiodato per davvero tutti sulla stessa barca. A giudicare dalla paura che proviamo e dal rollio sinistro, dal modo in cui tiene faticosamente la rotta, tra mille scossoni, la barca su cui siamo tutti idealmente pigiati – proprio in questa realtà fatta di solitudine e distanziamento sociale – ci fa pensare a quelle carrette del mare che solcano il Mediterraneo in cerca di un approdo sulle nostre coste. Stavolta dobbiamo veramente augurarci che i porti li abbiano lasciati aperti, dobbiamo davvero confidare nella solidarietà e nell’umanità di ciascuno di noi. Altrimenti continueremo a guardare la terra promessa, il futuro, la fine dell’incubo, fermi a poche centinaia di metri di distanza, in mezzo al mare. Adesso siamo noi i migranti, quelli in balia di un’esistenza senza certezze. Una dura lezione. Teniamola a mente.