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Studiare conviene sempre, ma l’inflazione erode con forza anche gli stipendi dei laureati e molti di loro non sono più disposti ad accettare lavori sottopagati e non coerenti con i propri studi. È forse questo il dato più significativo che emerge dalla nuova indagine di Almalaurea (il consorzio di cui fanno parte 82 atenei) sul profilo e la condizione occupazionale dei laureati che ha coinvolto, rispettivamente, 300 mila e 600 mila persone in 78 atenei.
Per il resto, nulla di nuovo sotto al sole. L’ascensore sociale nel nostro Paese si ferma ben prima degli studi terziari. Nel rapporto si legge infatti che il 31,3% di essi ha almeno un genitore con un titolo di studio universitario, quota che nel 2013 era il 27,6%. Insomma, il divario sociale in 10 anni anziché ridursi è cresciuto.
I divari sociali e di genere
Sconsolato il commento di Luca Scacchi, responsabile forum docenza universitaria della Flc Cgil e ricercatore di psicologia sociale all'università della Val d’Aosta: “Nel nostro Paese – ci dice – l’ascensore sociale non esiste. La dinamica di selezione legata all’origine familiare è molto forte. E non è un caso viste le carenze del diritto allo studio e gli elevati costi che comportano gli studi universitari, come del resto denunciano da tempo gli studenti”.
Anche il background formativo dei laureati ci dice molto della polarizzazione del nostro sistema: prevalgono nettamente i diplomi liceali (73,5%), segue il diploma tecnico (19,8%), ”mentre è del tutto marginale il diploma professionale (3,1%)”.
Altri elementi interessanti, sempre in negativo, riguardano il genere. Si conferma infatti una presenza femminile molto minore nelle discipline Stem (science, technology, engineering, mathematics). Nei corsi di primo livello, si legge nel rapporto, “le donne costituiscono una spiccata maggioranza nei gruppi educazione e formazione (94,4%), linguistico (85,3%), psicologico (81,1%), medico-sanitario (76,0%) e arte e design (71,2%). Di converso, esse sono una minoranza nei gruppi informatica e tecnologie Ict (14,0%), ingegneria industriale e dell’informazione (27,2%) e scienze motorie e sportive (32,8%)”. Divari così alti non possono che spiegarsi se non con ragioni culturali che vanno ben oltre le vocazioni individuali.
Il ruolo dei tirocini
Una buona quota degli intervistati ha apprezzato il ruolo svolto dai tirocini curricolari che del resto, secondo l’indagine, offrono il 6,6% in più di opportunità di trovare lavoro. Dopo un periodo di stallo, nel 2023 sono tornati a crescere, tanto è che ben oltre il 60% dichiara di averne svolti. Anche questo dato non sorprende. Ancora Scacchi: “I tirocini sono ormai curricolari, cioè non vengono scelti volontariamente. Molti corsi di studi hanno un’ottica professionalizzante e più che essere dei tirocini si tratta ormai di stage finalizzati all’inserimento lavorativo in cui l’attività formativa viene dimenticata o comunque affidata al tutor aziendale”.
Per il sindacalista, dunque, “per la aziende si tratta di un inserimento lavorativo sottocosto, e il giudizio su questo strumento non può dunque che essere ambivalente”.
Per i laureati calano le retribuzioni
Tra i neolaureati il tasso di occupazione risulta in calo dell’1%: a un anno dal titolo è al 74,1% tra i quelli di primo livello e al 75,7% tra i laureati di secondo livello. Sale invece il tasso di occupazione a 5 anni dalla laurea di primo livello: 93,6%, +1,5% rispetto al 2022. Il tutto, però, in un contesto di diminuzione dei salari non in termini nominali, ma in rapporto all’inflazione.
Come si legge nel rapporto, “in termini reali i livelli retributivi hanno subìto nel 2022 una consistente contrazione, interrompendo l’andamento di crescita registrato fino allo scorso anno. Rispetto al 2021 le retribuzioni figurano, in termini reali, in calo del 4,1% per i laureati di primo livello e del 5,1% per quelli di secondo livello”. Dati che confermano l’importanza delle rivendicazioni della Cgil che da tempo invoca soluzioni, contrattuali e fiscali, per quella che ormai è una vera e propria questione salariale che allontana l’Italia dalla maggior parte dei Paesi europei.
Del resto, come ci dice ancora Almalaurea, lo stipendio di un neolaureato italiano è piuttosto basso: circa 1.300 euro. Il paradosso, riprende Scacchi, è che “spesso la retribuzione iniziale dei laureati è inferiore a quella dei diplomati. La progressione stipendiale è più significativa nel tempo: il che vuol dire che le imprese assumono laureati in posizioni non congrue e poi li ‘fanno crescere’ nel tempo. Si tratta di una sorta di salario d’ingresso, magari con contratti di apprendistato o di stage o anche a part-time, cioè con meno ore lavorate, o addirittura con forme di precariato molto spinto. Un diplomato, che all’età di 27-28 anni già lavora da qualche anno, fatalmente guadagna di più”.
E questo però ci crea qualche problema col resto d’Europa, dove i neolaureati, sottolinea il ricercatore, “vengono spesso assunti non solo con stipendi iniziali molto più alti ma anche dando loro subito incarichi di responsabilità”. La fuga dei cervelli si spiega anche così: con la scarsa fiducia che il nostro Paese dà ai suoi giovani, con un mercato del lavoro piegato sempre a logiche di risparmio, con una selezione sottocosto che non accetta alcun rischio.
Questa situazione spiega anche l’altro aspetto interessante del rapporto Almalaurea: quello secondo cui i laureati sono sempre meno propensi ad accettare retribuzioni particolarmente basse o non coerenti con il proprio titolo di studio: a un anno dal titolo, infatti, la quota di chi accetterebbe al più una retribuzione di 1.250 euro è rispettivamente del 38,1 e del 32,9% tra i laureati di primo e secondo livello: con un calo sostanziale nell’ultimo anno dell’8,9 e del 6,8%. Non solo: calano del 5,9 e del 3,0% i laureati disposti ad accettare un lavoro non adeguato ai propri studi.
“Per me questo è un aspetto importante e lo collegherei al tema delle ‘grandi dimissioni’ seguite al periodo pandemico. Un nodo complesso che indica però un cambiamento rispetto alle aspettative e agli obiettivi di vita delle persone”, conclude Scacchi.
Certo è che l’insoddisfazione per le condizioni date e aspettative maggiori sono la base da cui partire per rivendicare cambiamenti radicali. La politica però deve darsi da fare, saper leggere i dati e ascoltare. Il che non pare al momento all’ordine del giorno.
Basti pensare al fondo affitti per gli studenti fuorisede. Persino con gli stanziamenti aggiuntivi contenuti nell’ultimo Dl Sport, a ciascuno dei 20 mila studenti beneficiari (su 900 mila fuorisede), andrebbero circa 800 euro all’anno, nemmeno sufficienti per pagare un paio di mensilità.