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Nasce nel 2017 da una collaborazione tra Università della Tuscia e l’associazione Differenza donna. Si trasferisce poi alla Sapienza di Roma insieme a chi l’ha ideato e lo dirige: è l’Osservatorio Step. Cos’è, cosa fa? Lo capiamo leggendo sul sito del progetto: “Si propone in particolare di indagare gli stereotipi e i pregiudizi che colpiscono la donna vittima di violenza in ambito giudiziario, nelle forze dell’ordine e nella stampa”.
Il progetto ha previsto due principali linee di azione: la ricerca sulla rappresentazione socio-culturale della violenza contro le donne in ambito giuridico (analisi delle sentenze) e nel linguaggio dei media (analisi della rassegna stampa); l’attività di formazione rivolta ai diversi target sociali e professionali del progetto (magistrate/i; avvocate/i; rappresentanti delle forze dell’ordine; giornaliste/i; studenti universitari).
Flaminia Saccà insegna Sociologia dei fenomeni politici, presso il Corso di Laurea magistrale in Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione del Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e dei processi di socializzazione dell’Università La Sapienza di Roma. È la direttrice scientifica dell’Osservatorio Step e con lei cerchiamo di capire quali meccanismi occorre rompere e come farlo per contribuire, anche attraverso parole e linguaggi, al superamento del patriarcato.
Professoressa, lei è l’ideatrice e la responsabile dell’Osservatorio Step per indagare gli stereotipi di cui sono infarciti i linguaggi giuridico e giornalistico. Da dove nasce questa iniziativa?
L’Osservatorio nazionale nasce nel 2017. Decidemmo di monitorare la stampa nazionale in maniera assolutamente eterogenea, scegliendo le più grandi 15 testate selezionate per tiratura: lo scopo era ed è quello di capire come i giornali coprissero il racconto della violenza contro le donne. Ci siamo resi conto, nel tempo, che nel racconto giornalistico si trovano ancora molti stereotipi e pregiudizi propri di una cultura patriarcale. Questo ha una serie di effetti negativi, sia nella modalità del racconto sia nella riproduzione della cultura patriarcale che diventa difficile da sconfiggere e superare.
Quali sono gli stereotipi più diffusi?
Innanzitutto, nel racconto della violenza maschile contro le donne, ovunque, anche nei giornali cosiddetti progressisti, si trova l’assenza del maltrattante, del violento, del femminicida. La violenza sembra che capiti come un accidente, una fatalità senza protagonista. Questo oscuramento delle responsabilità, del maltrattante, avviene secondo diverse modalità piuttosto precise: si racconta il femminicidio, ad esempio, descrivendo la villetta familiare dove la donna è stata trovata uccisa e solo dopo aver letto tante righe si capisce che forse il colpevole è il marito, ma non viene mai definito, né come colpevole, né come omicida, né tantomeno come femminicida.
Quali altre tendenze sono diffuse nella stampa?
Molto frequente è quella che anche quando c’è un femminicidio, quindi c’è una chiara evoluzione tragica della violenza maschile contro le donne, si tende a ripartire le responsabilità tra vittime e carnefice, sottraendo empatia alla donna e spostandola sul femminicida. Molti sono gli esempi che si possono fare dalla descrizione dell’uomo come una brava persona, innamorato e disperato perché lasciato, fino al raptus di gelosia. Questa redistribuzione di responsabilità produce la cosiddetta ‘vittimizzazione secondaria’.
Cos’è e quali effetti ha la vittimizzazione secondaria?
È rendere due volte vittima la donna che subisce violenza: la prima volta è vittima della violenza subita, la seconda è vittima perché si fa ricadere su di lei parte di responsabilità per la violenza subita. Quello che forse non si sa con uguale chiarezza è che la vittimizzazione secondaria, questo tipo di rappresentazione della violenza, ha effetti materiali sulle donne che sopravvivono. Ed è bene ricordare che per fortuna i femminicidi sono solo una piccola percentuale del fenomeno della violenza di genere che, invece, in gran parte è violenza domestica, e che spesso non viene raccontata dalla stampa. Queste le ragioni che ci hanno spinto a creare un osservatorio che cerca di gettare luce sia sulle modalità distorsive del racconto della violenza sia sugli effetti di questa distorsione sulle donne stesse.
Quali sono, allora, gli effetti del racconto distorto e stereotipato della violenza?
Gli effetti di questo racconto distorto li abbiamo verificati in due diversi filoni di ricerca dell’Osservatorio. Il primo – come dicevo – analizzando i giornali, il secondo analizzando 282 sentenze, e lì abbiamo riscontrato gli stessi identici stereotipi e pregiudizi che avevamo già incontrato nei giornali. Certo è grave ma, purtroppo, non stupisce perché tutti siamo immersi nella cultura patriarcale e gli stereotipi lavorano in maniera così pervicace da distorcere i fatti persino nei tribunali che, invece, è il luogo dove dovrebbero essere accertati i fatti. Analizzando quelle sentenze ci siamo accorti che non solo spesso si distorcono gravemente i fatti, ma addirittura la cultura così stereotipata arriva a stravolgere le leggi.
Può farci degli esempi?
Al di là dei codici, ad esempio nelle sentenze che abbiamo analizzato spesso non abbiamo trovato traccia della Convenzione di Istanbul che è legge dello Stato dal 2013. È vero che quelle sentenze sono state selezionate per cattive pratiche, ma siccome non esiste una statistica ufficiale delle sentenze sulla violenza di genere, non sappiamo se quelle 282 sono rappresentative o meno. Anche il fatto che non sia possibile conoscere l’universo delle sentenze sulle violenze, che non esista una statistica ufficiale, è un problema. Ma soprattutto quello che è emerso dall’Osservazione sulle sentenze è che la donna viene rappresentata spesso come qualcuna che ha indotto il marito, il compagno, il partner, lo stupratore, ad agire violenza su di lei. E gli effetti di tutto questo è che per quella donna è più difficile accedere alla giustizia, quindi quel principio costituzionale che afferma che la giustizia è uguale per tutti, viene meno.
Dai dati dell’Osservatorio emerge che nel racconto giornalistico quasi mai viene evidenziato che sovente una delle cause della violenza di genere si annida nella asimmetria di potere tra uomini e donne. Il racconto giornalistico non riesce a illuminare che la violenza spesso scatta quanto le donne si sottraggono al potere e al possesso maschile. È un racconto monco?
È peggio di così, non è solo un racconto monco, è un racconto distorto. Cioè è un racconto non esperto e che si avvale di tutta una serie di stereotipi che non aiutano, anzi, che oscurano le dinamiche reali della violenza, non portano alla luce il fatto che non è un problema individuale, di devianza, di amore malato. Solo ogni tanto il quotidiano Il Manifesto ha collocato il fenomeno della violenza di genere nella corretta dinamica culturale e di potere.
Giornaliste e giornalisti sbagliano a raccontare, i giudici sbagliano a scrivere le sentenze. Che fare?
Formazione. Ritengo che la via maestra sia quella di lavorare fin dalle scuole per rompere gli stereotipi e formare al rispetto delle differenze e all’affettività. L’Osservatorio Step ha proprio questo come obiettivo: far emergere i fenomeni, raccontare gli stereotipi, e partendo dal linguaggio cominciare a costruire un racconto diverso e una cultura altra dal patriarcato.