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Fabbricare mascherine in un Paese come l’Italia, che per questo prodotto prima della crisi era totalmente dipendente dalle importazioni, sembra essere diventato uno sport nazionale, occasione per riconvertirsi, andare incontro alle necessità di enti e ospedali, rispondere alla domanda crescente. Ma se le mascherine le cuciono i detenuti, chiusi nella stessa cella da settimane a causa del Coronavirus, questo strumento indispensabile per difendersi dal contagio acquista un valore etico e simbolico insieme. Come è successo nei penitenziari di Bollate a Milano, Rebibbia a Roma e Salerno, dove 320 detenuti servendosi di otto macchinari tecnologicamente avanzati, distribuiti nei tre stabilimenti all’interno delle carceri, produrranno 400 mila pezzi al giorno grazie a una partnership fra il ministero della Giustizia e il commissariato per l’emergenza Covid-19. A Padova, dove i carcerati della cooperativa Giotto creata nell'istituto di pena hanno iniziato a produrre i dispositivi e i primi cento li hanno donati ai magistrati di sorveglianza del tribunale. E nei penitenziari di Lecce e di Trani dove, dopo la sospensione dell’attività sartoriale causata dalle tensioni, ci si è rimboccati le maniche per reinventarla.
“Abbiamo pensato di poter essere d’aiuto alla comunità carceraria affrontando la prima emergenza: la carenza di mascherine che una volta prodotte potevano essere donate allo stesso istituto – racconta Luciana Delle Donne, fondatrice e anima di Made in carcere, una maison attiva all’interno dei penitenziari di Lecce e Trani, per dare una seconda opportunità alle donne detenute –. Quindi, abbiamo organizzato due giornate di formazione a distanza e in presenza, naturalmente rispettando tutte le norme di sicurezza, e poi via, siamo partite con la prima produzione di 5 mila pezzi, che abbiamo regalato anche al Comune di Lequile, che ci ospita da anni, e poi ai bisognosi, a chi lavora nelle mense. Certo, i primi giorni le detenute coinvolte erano spaesate, ma impiegare il tempo sospeso della quarantena trasformandolo in tempo attivo è servito a distrarsi dalla sensazione di tragedia imminente. Le persone che vivono in condizione di detenzione provano sensazioni sempre molto forti, si sentono chiuse in gabbia senza sapere esattamente che cosa accade fuori. L’idea di questo lavoro ha inizialmente spaventato le detenute coinvolte, come se non avessero mai cucito, ma poi hanno ingranato”.
Nel frattempo, le promotrici hanno contattato il gruppo Emergenza Covid, il Politecnico di Bari e quello di Milano, per acquistare il tessuto medicale per confezionare le mascherine destinate al personale sanitario. Adesso sono pronte per avviare la pratica per la certificazione di questa produzione. Nelle carceri di Lecce e Trani lavorano circa 15 risorse, e a breve anche a Matera e Taranto. A regime potranno produrre 1.000, 1.500 mascherine al giorno, una piccola goccia nel mare delle necessità di questo Paese che, secondo il capo della Protezione civile Angelo Borrelli, si attestano intorno ai 90 milioni di pezzi al mese.