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Nel nuovo decreto varato il 16 marzo, il governo ha stanziato fondi per gli straordinari di medici e infermieri, ha dato il via libera ai prefetti per requisire ospedali, altre strutture e mezzi per potenziare i reparti. Sarà possibile stipulare anche accordi con cliniche private accreditate e, se non sufficienti, anche con quelle non accreditate. I privati, ha annunciato il presidente del Consiglio Conte, non potranno più rifiutarsi di collaborare e, se richiesto, dovranno “mettere a disposizione personale, immobili e macchinari”. Una decisione che è arrivata nel pieno di un nuova settimana di passione per il sistema sanitario italiano, soprattutto per quello lombardo. Le cifre diffuse lunedì restano infatti impietose: nel mondo sono stati superati i 7.000 decessi, oltre 1.400 sono in Lombardia, il fronte più caldo della guerra al Covid-19. L'ultimo dato parla di altri 202 caduti in un solo giorno. Il nuovo decreto, tra l’altro, è arrivato alla fine di una lunga coda di polemiche che hanno coinvolto non poco la sanità privata in Lombardia, e sono culminate con la nomina di Guido Bertolaso come consulente personale del presidente Attilio Fontana. L’obiettivo annunciato è aumentare i posti letto. I ricoverati in regione, su 14.649 contagiati, sono al momento oltre 6.200 in reparto e 823 in terapia intensiva.
“È QUASI MERCATO”
L’occhio del ciclone virale che s’è abbattuto sull’Europa e sul mondo intero è quindi ancora puntato dritto sulla Lombardia. Fortunatamente, qui, il sistema sanitario è tra i più efficienti del Paese, ma anche quello in cui, nel rapporto tra pubblico e privato, si è voluto privilegiare proprio il “secondo pilastro”. È il risultato di un apparato costruito, mattone dopo mattone, negli ultimi venticinque anni. E che s’incarna nella figura di Roberto Formigoni, governatore dal 1995 al 2013. Oggi Formigoni sta scontando una pena di cinque anni agli arresti domiciliari per corruzione, proprio nell’ambito della sanità lombarda. Ma la sua eredità è stata raccolta quasi senza scossoni prima da Roberto Maroni e poi da Attilio Fontana. “Sulla Sanità – diceva qualche tempo fa Nicola Sanese, l’organizzatore che sotto la presidenza del “celeste” è stato, in diversi ruoli, sempre ai vertici della struttura regionale – abbiamo creato un sistema di ‘quasi mercato’ in cui l’offerta di servizi viene fatta da soggetti pubblici e privati accreditati. Abbiamo operato secondo la legge nazionale nell‘aziendalizzazione degli erogatori pubblici, ma qui in Lombardia le abbiamo parificate alle strutture private, garantendo la libera scelta del cittadino”.
“In Lombardia abbiamo garantito la libera scelta, pubblico e privato alla pari”
La “legge nazionale” a cui fa riferimento Sanese in realtà sono le due le riforme che hanno perfezionato l’istituzione del Sistema sanitario nazionale nato nel ’78, oltre al riordino costituzionale del 2001. La prima, il decreto legislativo 502/92 dell’allora governo Ciampi, trasforma le Usl in aziende, avvia l’orientamento al “mercato” e la distribuzione della responsabilità alle Regioni. Le Unità sanitarie, da quel momento in poi, non verranno più delegate ai Comuni, ma direttamente alla Regione, che le sostiene economicamente. Parallelamente alla riorganizzazione aziendalistica, si spalancano così le porte alle strutture sanitarie private, di fatto equiparate a quelle pubbliche attraverso il meccanismo dell’accreditamento.
Le riforme degli anni 90 hanno aperto le porte al mercato sanitario
Nel 1999 arriva invece la cosiddetta “riforma Bindi” (legge 229/1999), che definisce in modo più preciso i Livelli essenziali di assistenza (Lea) che le Regioni devono obbligatoriamente fornire, e conferma l’impostazione privatistica dell’ordinamento sanitario. Dopo circa sei mesi, viene poi approvata la legge 133 che determina la soppressione nell’arco di tre anni del Fondo sanitario nazionale, lasciando alle Regioni il compito di finanziare direttamente la propria sanità. Infine nel 2001 muta il quadro costituzionale, con la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce nuovi poteri e autonomia alle Regioni, approfondendo ancor di più la disomogeneità dei servizi erogati nei diversi territori. Dal 2001 gli accordi tra Stato e Regioni sono infatti l’unico strumento con cui si disegna l’assistenza pubblica in Italia.
Negli corso di tutti questi anni il peso del privato accreditato è cresciuto in maniera esponenziale all’interno del Sistema sanitario nazionale, anche se in maniera non uniforme nelle varie regioni. Secondo i dati del più recente Focus tematico dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, nel 2018, infatti, lo Stato italiano ha speso in media 392 euro per abitante per erogare prestazioni tramite privato accreditato, pari al 20,3% della spesa sanitaria complessiva, un aumento di quasi il 2% rispetto al 2017. Il privato accreditato attualmente detiene il 31% del totale dei posti letto complessivi.
“Si spendono in media 392 euro per abitante per prestazioni tramite privato accreditato”
Tra le regioni, però, ci sono grandi differenze. Si passa dal Lazio, dove oltre la metà dei posti letto è affidata al privato (51,1%), e dalla Lombardia (oltre il 40%), alla Basilicata dove i privati accreditati rappresentano meno del 10. Si tratta in ogni caso di un settore a dir poco frammentato: in Lombardia e nel Lazio, ad esempio, si concentrano diverse strutture di grandi dimensioni, spesso dotate di pronto soccorso, dipartimenti di emergenza e urgenza. Nel resto del paese sono molto poche. Del resto, i due più grandi ospedali di Roma e Milano, il Gemelli e il San Raffaele, sono proprio privati accreditati.
L'AZIENDA SANITARIA LOMBARDA
In Lombardia, però, lo sbilanciamento a favore del privato è stata una vera e propria cavalcata trionfale. “Dalla metà degli anni novanta al 2018, i posti letto pubblici sono stati più che dimezzati, mentre in parallelo i posti letto privati sono aumentati”, conferma Maria Sartor, docente di programmazione nelle aziende sanitarie alla Statale di Milano, in una serie di articoli dedicati all’argomento. D'altronde i dati li fornisce la Regione stessa: i privati nel 2017 si aggiudicavano il 35% dei casi di ricovero, e ricevevano il 40% del totale speso dalla Regione per questo tipo di servizi. Quel 5% in più, evidentemente, ci dice che il privato è comunque più caro del pubblico.
Fonte: Regione Lombardia
L’Osservatorio Assolombarda Bocconi, analizzando quanto accaduto nel decennio tra il 1997 e il 2006, consegna alla Lombardia anche il record di crescita degli ospedali privati. Nel 1997 erano 55, nel 2006 sono diventati 73. Una variazione che non ha eguali nel resto dell’Italia. Poi, si sono moltiplicati i casi di ospedali pubblici accorpati, chiusi o fortemente ridimensionati dalle giunte leghiste di Maroni e Fontana dal 2014 ad oggi. Per citarne solo alcuni, quelli di San Giovanni Bianco, Lecco, Calcinate, Cernusco sul Naviglio, Oglio Po, Busto Arsizio e Monza. La sanità lombarda, però, resta nonostante tutto un’eccellenza nel panorama nazionale. Lo conferma sempre l’Ufficio parlamentare di Bilancio, valutando le classifiche dei Lea e il saldo della mobilità dei cittadini in sanità.
Fonte: Ufficio parlamentare di Bilancio
D’altro canto, la regione guidata da Fontana può contare su circa 19 miliardi di euro pubblici ogni anno. Nel 2019, la Lombardia, che ha il doppio della popolazione della Puglia, ha speso quasi il triplo della regione amministrata da Emiliano. Circa 19,3 miliardi per 10 milioni di residenti, contro i 7,7 pugliesi per 4,2 milioni di abitanti. I dati sono estrapolati dai bilanci di previsione 2019-2021 delle singole Regioni.
IL PRIVATO NON AMA LE URGENZE
“Il sorpasso del privato sul pubblico, però, era già avvenuto fin dal 2015 per quanto riguarda la diagnostica strumentale e per immagini – continua la professoressa Sartor –. Se si considera infatti il valore (economico) delle prestazioni erogate in ambulatorio dal privato lombardo sul valore totale delle prestazioni, il privato incideva già per il 52%. In totale, poi, le strutture di ricovero in Lombardia per day hospital e ricovero ordinario (non urgenti) sono divise esattamente a metà tra pubblico e privato (50% e 50%)”. “Se si considerano i risultati della ricostruzione dei fatti e si misurano i fenomeni che rappresentano – conclude la professoressa – si può affermare al di là di ogni ragionevole dubbio che la privatizzazione del sistema lombardo è del tutto incontrovertibile, e dai prevedibili notevoli effetti presenti e futuri sul servizio sanitario nel suo complesso, non solo lombardo”.
Fonte: Opendata Regione Lombardia
Da tutti questi dati appare chiaro che il privato si sia concentrato soprattutto su prestazioni differibili, lasciando al pubblico i casi più gravi. Soprattutto quando non c’è urgenza e non c’è pericolo di vita, insomma, la sanità italiana vira sul privato. Anche in Lombardia, dove in ogni caso il privato ha un numero maggiore di posti letto per casi urgenti rispetto al resto del territorio nazionale. Nel resto d’Italia, in effetti, ci sono specifiche aree in cui il contributo privato accreditato è schiacciante. E tra queste non c’è certo la terapia intensiva, quella che sarebbe ossigeno puro oggi. In media, nell’area della non-acuzie ospedaliera (i casi meno gravi), ad esempio, il privato garantisce addirittura il 42% dei ricoveri per lungodegenza e il 76% di quelli per riabilitazione a livello nazionale. Per quanto riguarda la cronicità, poi, arriva al 59% degli ambulatori, l’82% delle strutture residenziali e il 68% di quelle semiresidenziali.
Il privato si concentra su prestazioni differibili, lasciando al pubblico i casi più gravi
Il tema di quali prestazioni vengano fornite dal privato, insomma, non è certo nuovo, ma riguarda in maniera non marginale l’attuale emergenza sanitaria. La maggior parte dei privati accreditati, oltre alla riabilitazione, copre principalmente le discipline chirurgiche programmate. Dunque possono apparire come soggetti limitati nel rispondere all’attuale epidemia. “Nel privato esistono sicuramente delle eccellenze – spiega Nino Cartabellotta, della Fondazione Gimbe, che si occupa di attività di formazione e ricerca in ambito sanitario –, ma questo accade soprattutto nella medicina ordinaria. La maggior parte delle strutture private non sono certo attrezzate a gestire casi emergenziali. I posti in terapia intensiva sono molto pochi, la Lombardia in questo è un’eccezione”.
ALLA PROVA DEL COVID-19
Forse è anche per questo che le polemiche scoppiate in tempi di pandemia sono così difficili da dirimere. In buona parte d’Italia, i malati urgenti non sono quasi mai trattati dal privato, perché i pazienti acuti non sono un buon affare, richiedono cure costanti e costose. Un intervento all’anca, una tac o una lastra, invece, sono molto più convenienti. E questo vale anche in una regione in cui la sanità resta un’eccellenza. Prima del Coronavirus, rispondono dall’Aiop (Associazione italiana ospedalità privata), i posti letto offerti in terapia intensiva in Lombardia erano in totale 859. Di questi, 589 offerti dagli ospedali pubblici e 270 dalle strutture private. Un dato significativo, certo, ma che non incide massicciamente come accade nella medicina ordinaria, e che soprattutto non ha riscontri in altri territori. Il 15 marzo l’assessore al Welfare Giulio Gallera ha tra l’altro annunciato che in regione i posti erano arrivati a 1.200, di cui “924 dedicati a pazienti Covid-19”. Abbassando ancora il dato relativo al contributo del comparto privato.
Un intervento all’anca, una tac o una lastra sono molto più convenienti
“Il privato ha già dato supporto per la rete assistenziale, ai pronti soccorsi ad esempio, che sono accessibili a tutti – dice Michele Vannini della Fp nazionale –. Noi chiediamo che questo apporto si intensifichi, con la possibilità di impiegare nel pubblico personale inutilizzato nel privato, attraverso convenzioni”. “La Lombardia, in realtà, si sta comportando abbastanza bene – aggiunge Barbara Francavilla, che per la Fp si occupa proprio di sanità privata –. La Regione ha sottoscritto subito un accordo con le grandi strutture convenzionate e accreditate perché fornissero prestazioni di lavoratori e strutture, evitando di mettere in cassa integrazione i dipendenti delle strutture che hanno chiuso in questo periodo. I problemi più grossi ci sono in altre regioni”.
In Lombardia, intanto, nonostante il più recente decreto del governo, la battaglia per l'ospedale in zona Fiera a Milano va avanti, mentre la regione guidata da Fontana procede anche con il piano b: nei prossimi giorni saranno ripristinati gli impianti in aree dismesse del Niguarda, del Policlinico e del San Carlo di Milano, del San Matteo di Pavia e del San Gerardo di Monza, per aprire altri letti di terapia intensiva. Il peso dell’emergenza resta quindi quasi tutto sulla sanità pubblica, mentre il privato prenderebbe in carico pazienti con altre patologie per fare spazio a chi ha contratto il Coronavirus.
Il privato prende in carico pazienti con altre patologie, non con il Covid
“Se la domanda fosse ‘sarebbe stato meglio dare fondi al pubblico in passato?’, la risposta oggi sarebbe sì – commenta Cartabellotta –. Oggi però potremmo anche rispondere che il privato dovrebbe dare una mano maggiore al pubblico, facendosi carico di altri casi, mentre il sistema sanitario si occupa degli infetti”.
“A dire il vero è un po’ paradossale che in un sistema sanitario che utilizza il privato accreditato e convenzionato sia soprattutto il pubblico che debba accollarsi l’onere di questa situazione – dice poi Stefano Cecconi, responsabile della Sanità per la Cgil nazionale –. Le richieste devono essere più nette. Il privato deve partecipare in maniera più decisa a questa battaglia”. “Ciò che manca al pubblico deve essere chiesto al privato, anche in situazioni normali – conferma Barbara Francavilla –. Non è una cosa semplice, ma il privato è servizio pubblico allo stesso modo, non è detto che possano scegliere di cosa occuparsi e cosa tralasciare. Bisogna garantire gli stessi livelli di assistenza e anche la stessa tipologia contrattuale che hanno i lavoratori del pubblico”.
“Ora se ne parla molto, ricordiamocene quando tutto sarà finito”
L’epidemia di Coronavirus, però, “ha messo in discussione l’intero sistema pubblico-privato, ha tirato fuori dei problemi oggettivi – conclude Francavilla –. Di sicuro c’è che oggi stiamo ragionando su cosa fare. Se ne parla, e questo è già un bene. Tutti dicono che bisogna riportare al centro il sistema pubblico, io dico che dentro ci deve essere anche il privato accreditato. Ricordiamocene, però, quando tutto questo sarà finito”.