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Mi sarà perdonato l’uso della prima persona nel trattare un tema, quello della salute mentale nel 40° anniversario della legge 180, che richiederebbe criteri scientifici e quanto più possibile obiettivi. Userò la forma personale e diretta perché non ho alcun titolo scientifico o derivato da un ruolo specifico, che so operatore sanitario, utente, e neppure familiare ormai, se non quello che discende dal fatto che mi sono sempre occupato di temi legati alla sanità nella mia attività di giornalista, ma direi piuttosto di osservatore attento alle tematiche sociali; che ho scritto un libro sulla storia di mio fratello schizofrenico, morto nel 2009 (Il bambino con le braccia larghe, edito da Ediesse nel 2010); e che da allora ho continuato a frequentare il mondo della salute mentale. L’ho fatto sia per presentare il libro in giro per l’Italia, spesso in strutture sanitarie o presso un pubblico di lettori, addetti ai lavori, pazienti, familiari, studenti, sia – più di recente – per svolgere la mia attività di volontario in un Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura) e al Museo della Mente nell’ex comprensorio manicomiale del S. Maria della Pietà a Roma. Tra l’altro, proprio in qualità di volontario, faccio parte di un gruppo di operatori, familiari e volontari che si occupa di “umanizzazione” negli ospedali sotto la giurisdizione della Asl Roma1, e che ha gli Spdc tra i suoi obiettivi di indagine. Ma l’ho fatto soprattutto perché sono rimasto legato al mondo della follia, avendola avuto al mio fianco ed essendomici dovuto confrontare per un lunghissimo tratto di vita.
Partendo da ciò che avevo scritto nel mio libro e dalle reazioni che esso ha suscitato, mi sono rimaste e hanno trovato conferma una serie di convinzioni relativamente al disagio mentale. Inoltre ho potuto osservare da vicino l’evolversi delle strutture alternative al manicomio e delle “narrazioni” sul disagio mentale che avevano iniziato ad affermarsi in Italia a partire dal 1978. Dunque, nasce da qui l’approccio diretto e personale a un tema delicato, dolorosissimo e controverso come quello della follia, prima, durante e a distanza di 40 anni dall’entrata in vigore della legge 180.
Sul piano della teoria mi limito a osservare che il dibattito esploso negli anni 70 proprio a ridosso della legge Basaglia, che allora aveva avuto qualche estremizzazione fino al limite di negare l’esistenza stessa della malattia mentale (ritenerla un prodotto della società malata rischiava di sottovalutare la sofferenza individuale provocata dalla malattia), non mi sembra giunto a conclusioni certe, definitive e indiscutibili; anche se gli studi sull’origine organica della malattia e quelli sulle influenze ambientali sono andati avanti di pari passo e hanno stabilito alcuni punti fermi molto più solidi e meno esposti a contaminazioni ideologiche.
Senza dubbio molti dei problemi relativi al trattamento dei pazienti, soprattutto nella fase acuta ma anche lungo il decorso della crisi psicotica, sono stati risolti dagli psicofarmaci, che in questi ultimi quarant’anni hanno conosciuto un enorme sviluppo e hanno svolto una funzione essenziale, ancora una volta sussidiaria rispetto all’impotenza delle cure e alle insufficienze del sistema sanitario. Farmaci a base di litio, ad esempio, si sono dimostrati capaci di ridare equilibrio alle persone, e costituiscono in molti casi il fondamento del percorso di cura. Ma non è certo uno spettacolo edificante assistere agli effetti collaterali di alcuni psicofarmaci, somministrati in dose massiccia soprattutto all’atto del ricovero negli Spdc: pazienti che si aggirano nel reparto inebetiti, con tremori alle mani e in tutto il corpo, bava alla bocca, sonnolenza patologica, spasmi muscolari.
Si obietterà che questo è il male minore, e sarà senza dubbio così. Però ho assistito personalmente a un uso sconsiderato e fuori controllo degli psicofarmaci, specie quando il loro dosaggio è lasciato alla discrezionalità degli infermieri che non sanno come tenere a bada pazienti che urlano, non dormono e infastidiscono gli altri pazienti (o gli stessi infermieri?). Per non parlare dei letti e delle fasce di contenzione, che erroneamente si pensa appartengano alla preistoria dei manicomi e che invece vengono tuttora utilizzati in alcune strutture, sebbene per periodi limitati, sotto stretto controllo medico, e quando ogni altro tipo di intervento si è rivelato inefficace. Lo stesso, del resto, si può dire del famigerato elettroshock, che non appartiene affatto all’archeologia psichiatrica come comunemente si crede. Anche se oggi viene utilizzato solo in casi molto circostanziati, in anestesia totale e non più indiscriminatamente e da svegli come avveniva in passato, non sono certo che sia stata fatta chiarezza sulla sua utilità terapeutica e sugli effetti collaterali, così come è avvenuto con gli psicofarmaci. Alcuni dei quali peraltro agiscono da elettroshock chimici e quindi sostituiscono egregiamente quel marchingegno infernale.
Certo, una cosa sono le teorie sull’umanizzazione degli ospedali, i diritti umani e civili, i trattamenti che rispettano la dignità dei malati, “imparare a convivere con il proprio disagio”, e così via: tutte belle parole che in certi casi lasciano il tempo che trovano. Altra cosa è avere a che fare con pazienti che non rispondono a nessun tipo di cura. E, soprattutto, un’altra cosa è vivere in trincea negli Spdc e nei pronto soccorso degli ospedali dove, in assenza di un filtro adeguato, arrivano pazienti di tutti i tipi: da quelli in stato di agitazione psico-motoria ai depressi, dai senza casa ai criminali in preda a furia distruttrice, dai turisti in crisi mistica agli aspiranti suicidi.
Non so indicare soluzioni al riguardo. Però, come osservatore e come volontario, assisto a certe evidenze che non sono certo secondarie nella valutazione degli aspetti appena descritti. Mi riferisco in primo luogo alla condizione in cui operano gli Spdc, confinati nei reparti meno accessibili degli ospedali, in luoghi spesso fatiscenti e con un palese sottodimensionamento di medici, infermieri e operatori di sostegno, in particolare psicologi, assistenti sociali e mediatori culturali. Una realtà resa sempre più drammatica dal vero e proprio boom del disagio psichico tra la popolazione degli immigrati che, in percentuale commisurata alla loro presenza nel nostro paese e alle traversie che li hanno condotti in Italia, occupano una quota considerevole dei posti letto negli Spdc, spesso trascorrendo intere giornate senza rivolgere parola ad alcuno che ne capisca la lingua e le necessità.
Invece di adeguarsi ai nuovi bisogni, questi reparti ospedalieri vedono diminuire progressivamente le risorse umane ed economiche a loro disposizione, per effetto di tagli alla Sanità, periodiche spending review, razionalizzazioni e tagli lineari, blocchi del turn over o qualsiasi altra decisione assunta dalle direzioni ospedaliere, pronte a sacrificare in primo luogo – sembra quasi un destino ineluttabile – i reparti più ingovernabili e onerosi dal punto di vista economico. Uno degli effetti più macroscopici è la condizione di stress alla quale sono sottoposti medici e infermieri, che vivono in continuo stato di emergenza e senza turni di riposo adeguati, i medici costretti a dividersi tra reparto e pronto soccorso, gli infermieri che sono i più esposti al rischio “burn-out” (altro termine inglese molto di moda che significa logorio, esaurimento) per il loro contatto quotidiano e prolungato con la follia.
“Le crepe del sistema pubblico – scrivono a questo proposito Bernardo Carpiniello, Claudio Mencacci ed Enrico Zanalda, rispettivamente Presidente nazionale, ex Presidente e Segretario nazionale della Società italiana di psichiatria (articolo pubblicato il 22 dicembre 2017 su quotidianosanità.it (http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=57356) con il titolo “Salute mentale. Dimenticata dallo Stato, ma nuove malattie e incombenze rischiano di far saltare il sistema”) – sono amplificate dal progressivo impoverimento delle risorse di personale (in molte regioni italiane gli organici sono addirittura la metà di quelli fissati sulla base dell’ultimo Progetto Obiettivo Nazionale) e dalla generale scarsità di risorse finanziarie”. Il 24 gennaio 2013 la Conferenza Stato Regioni fissò nel 5 per cento del Fondo Sanitario Nazionale la spesa da destinare al settore della Salute Mentale. Solo tre aree – le Provincie autonome di Trento e Bolzano e l’Emilia Romagna – sono riuscite a raggiungere o superare quell’obiettivo (6,3 per cento nella provincia autonoma di Trento, contro il 2,2 per cento della Basilicata che figura all’ultimo posto), mentre più della metà delle Regioni si attestano ben al di sotto della media nazionale. Media che attualmente risulta pari al 3,5 per cento, a fronte di cifre comprese fra il 10 e il 15 per cento di altri grandi paesi europei (Francia, il Regno Unito, Germania) (La salute mentale in Italia. Analisi delle strutture e delle attività dei Dipartimenti di Salute Mentale, a cura di F. Starace, F. Baccari, F. Mungai (http://www.condicio.it/allegati/321/Salute_mentale_Italia_1_2017.pdf).
In questa situazione, obiettivi come la prevenzione diventano un vero e proprio miraggio, mentre appare sempre più gravoso lo sforzo di diversificare e ampliare i protocolli di trattamento innovativi basati sulle evidenze, come richiederebbe la sempre maggiore complessità dei casi da trattare, siano essi di tipo psicosociale (“dagli interventi psicoeducativi a quelli di rimedio cognitivo, dalle terapie cognitivo comportamentali ai programmi supportati di reinserimento lavorativo per i pazienti affetti da patologie gravi”, secondo la denuncia degli autori nell’articolo citato in quotidianosanità.it) che di tipo farmacologico. Tutto ciò sta portando a provvedimenti come l’esclusione dai prontuari terapeutici di alcuni farmaci di nuova generazione nel settore degli antidepressivi e degli antipsicotici, all’imposizione ai dirigenti di Dipartimento e di struttura di tagli degli ordini relativi agli stessi farmaci, cioè quelli più innovativi e a lunga durata d’azione. Tali provvedimenti comportano il ritorno ai trattamenti con farmaci di prima generazione o con farmaci per via orale. Secondo gli esperti, i primi presentano rilevanti problemi di tollerabilità rispetto ai nuovi, mentre i secondi espongono a maggiori rischi di ricaduta, generando un aumento dei costi per ricoveri ospedalieri e per inserimenti residenziali.
Così il cerchio si chiude, con il rischio di farci precipitare in una situazione pre-basagliana aggravata dall’esplosione del disagio mentale su scala globale.