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Il 28 ottobre 1922, con la marcia su Roma, Mussolini prendeva il potere. Dietro le manovre di normalizzazione politica operate dal regime (tra le quali anche il tentativo, poi fallito, di coinvolgere esponenti di spicco della CGdL nel governo del paese), l’azione repressiva proseguirà per culminare con l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti nel giugno 1924.
La crisi vissuta dal regime nei mesi successivi verrà superata da Mussolini all’inizio del 1925 - pochi giorni dopo il VI Congresso della CGdL, tenutosi a Milano nel dicembre 1924 -, quando il duce deciderà la svolta totalitaria attraverso una serie di provvedimenti liberticidi (le “leggi fascistissime”), che annulleranno qualsiasi forma di opposizione al fascismo.
Sul piano sindacale, con gli accordi di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, Confindustria e sindacato fascista si riconosceranno reciprocamente quali unici rappresentanti di capitale e lavoro abolendo le Commissioni interne. La sanzione ufficiale di tale svolta arriverà con la legge n. 563 del 3 aprile 1926, che riconoscendo giuridicamente il solo sindacato fascista - l’unico a poter firmare i contratti collettivi nazionali di lavoro - istituirà una speciale Magistratura per la risoluzione delle controversie di lavoro cancellando il diritto di sciopero (la costruzione della ‘terza via’ del fascismo porterà alla Carta del lavoro nel 1927 e alla costituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni nel 1939). Il regime, di fatto, avocava a sé la rappresentanza sindacale con il consenso della Confindustria, che da quel momento avrà come unici referenti sindacali le corporazioni fasciste e non più i sindacati liberi.
Il 4 gennaio 1927, in seguito ai provvedimenti emessi dal fascismo, il vecchio gruppo dirigente della Cgdl, tra cui Rinaldo Rigola e Ludovico D’Aragona, decide l’autoscioglimento dell’organizzazione, immediatamente però ricostituita nel febbraio 1927 a Parigi da Bruno Buozzi (nello stesso mese, durante la prima conferenza clandestina di Milano, i comunisti daranno vita alla loro Confederazione generale del lavoro).
Di fronte alle leggi fascistissime, che aboliscono le libertà politiche e sindacali, Rigola non assume atteggiamenti di aperta rottura: fonda, anzi, un’Associazione nazionale per lo studio dei problemi del lavoro (con compiti culturali e assistenziali), giudicata dagli antifascisti un atto di collaborazione con il regime. Il suo atteggiamento susciterà reazioni molto aspre, che non si spegneranno nemmeno nel secondo dopoguerra. Dopo il fallimento della sua associazione, la cui attività si esaurisce nel giro di un paio di anni, Rigola si ritira a vita privata.
L’ostracismo nei confronti della sua persona, verrà interrotto solo molti anni più tardi - il 2 febbraio 1953, il giorno dell’ottantacinquesimo compleanno del primo segretario della Confederazione - da Di Vittorio. Nel messaggio di augurio che a nome della Cgil gli invia, il sindacalista di Cerignola, pur non tacendo le divergenze profonde che c’erano state, riconosce a Rigola il ruolo di pioniere nella fondazione del sindacato italiano e il suo “lavoro intenso, proficuo e intelligente, al servizio dei lavoratori”.
“Lo sviluppo del movimento operaio e sindacale italiano come degli altri Paesi - affermava il segretario generale della Cgil - è stato caratterizzato dal sorgere da varie correnti in dissenso tra di loro. È accaduto perciò che noi abbiamo avuto sovente – ed abbiamo tuttora - posizioni differenti da quelle da te assunte e difese con assoluto disinteresse (a Rigola gli avversari, da ogni sponda, riconobbero comunque sempre una profonda onestà personale - dal fascismo non ebbe nulla! - e intellettuale, oltre che una statura culturale superiore alla media). Vi è stato un periodo della storia del nostro movimento, in cui il tuo atteggiamento è stato in profondo contrasto con quello nostro. Ma questi dissensi e questi contrasti non possono diminuire i sentimenti di gratitudine”.
Il riconoscimento morale arriva a Rigola insieme a un sostegno economico da parte della Cgil quando Di Vittorio viene per caso a sapere delle serie difficoltà in cui vive. “Sono veramente dolente - dirà Di Vittorio - di non aver conosciuto prima come stavano esattamente le cose e di non aver avuto, quindi, la possibilità di venire in suo aiuto”. L’atto di profonda umanità di Giuseppe Di Vittorio è condiviso da altre personalità della Cgil, a cominciare dal socialista Ferdinando Santi, segretario generale aggiunto della Confederazione.