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Il 1960 è uno dei momenti critici nella storia d’Italia: fine della guerra e sconfitta del fascismo risalgono a soli quindici anni prima, la vita democratica si è fatta strada tra ricostruzione, lotte sociali, contrasti politici. In un'epoca di forti trasformazioni produttive, in una situazione sociale e politica tesa, la formazione di un governo democristiano con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano viene da molti percepita come l’orientarsi della classe di governo e del mondo industriale nuovamente verso istanze fasciste. Ai rapidi mutamenti del sistema produttivo negli anni del pieno boom economico ed alle forze lavoratrici e sindacali che rivendicano con forza crescente condizioni di lavoro e di vita migliori, le forze padronali e politiche rispondono con un inasprimento degli atteggiamenti autoritari.
Il 14 maggio 1960 il Movimento sociale italiano ufficializza il suo sesto congresso per il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza. Gli ex partigiani, appoggiati dalla popolazione e dalla nutrita comunità dei portuali, iniziano a picchettare ogni angolo del capoluogo ligure; i sindacati di categoria fanno la voce grossa con il governo: quel congresso a Genova non si deve tenere, a qualunque costo. Dopo due cortei, il primo svoltosi il 25 giugno, e il secondo, il 28 giugno, concluso con un comizio di Sandro Pertini, il 30 giugno la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale. Un lungo corteo si dipana per le vie cittadine. Risalendo dal porto migliaia di cittadini, in massima parte di giovane età (i cosiddetti ragazzi dalle magliette a strisce) si riversano per le strade del capoluogo. Alla testa della manifestazione, gli operai metalmeccanici e i portuali, ad aprire il corteo i comandanti partigiani. Davanti al tentativo, da parte della polizia di sciogliere la manifestazione, esplode la rabbia popolare. Alla fine della giornata il prefetto di Genova si vede costretto ad annullare il congresso del partito neofascista.
Trascorrono solo pochi giorni e il 5 luglio a Licata, in provincia di Agrigento, durante una manifestazione unitaria di braccianti e operai, polizia e carabinieri caricano e sparano contro il corteo guidato dal sindaco Dc Castelli uccidendo Vincenzo Napoli che, si racconta, cercava di difendere un bambino tenuto fermo a un muro e picchiato dai celerini. I licatesi erano scesi in piazza per protestare contro la cronica mancanza di acqua, oltre che per richiedere condizioni economiche migliori. Le cause dell’incidente costato la vita a Vincenzo Napoli non sono mai state chiarite, ma i giornali dell’epoca parlano di violenza gratuita ad opera dei militari, avallati dal governo. A gran voce si chiedono le dimissioni di Tambroni ma lui continua a tirare dritto per la sua strada, forte per la mancanza dei numeri necessari alla mozione di sfiducia, non comprendendo di essere in realtà ormai giunto al capolinea.
Scriveva in quei giorni Luciano Romagnoli su Rinascita: “Che cosa era in discussione a Genova? E, dopo ancora, a Licata, a Roma e a Reggio Emilia? Che cos’era in discussione nel paese? Era il fondamento stesso dello Stato democratico: l’antifascismo, la Resistenza e la Costituzione repubblicana”. Così nel mese di luglio, sempre su Rinascita, Vittorio Foa: “Il fascismo per i lavoratori italiani oggi non è solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma è, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”.