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L’elezione diretta del premier non esiste in nessun Paese democratico, fu sperimentata in Israele poi rapidamente abbandonata. Secondo Francesco Pallante, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino, qualora la riforma che andrà in Consiglio dei ministri venerdì 3 novembre dovesse essere approvata il ruolo e le funzioni del presidente della Repubblica sarebbero assai ridotti, fino a diventare quasi un “passacarte”, così come il ruolo del Parlamento e gli spazi democratici e partecipativi. Una riforma da bocciare e contrastare.
Con l’elezione diretta del presidente del Consiglio, in caso di sfiducia il capo dello stato può indicare solo un esponente della stessa maggioranza per sostituirlo. Il centro destra afferma che nulla cambia al Quirinale, è davvero così?
No, in realtà non è come dice la maggioranza. Il testo in circolazione prevede che il presidente del Consiglio sia eletto direttamente dagli elettori contestualmente all'elezione del Parlamento; il presidente della Repubblica mantiene formalmente il potere di conferire l'incarico al presidente del Consiglio, ma deve per forza scegliere quello eletto dagli elettori.
Il capo dello Stato, quindi, non ha scelta…
La scelta l’hanno già fatta gli elettori, e il presidente della Repubblica è chiamato a fare da mero passacarte: definire il suo un ruolo notarile sarebbe persino eccessivo. Certo, mantiene il potere di nominare i ministri su indicazione del presidente del Consiglio, ma nella dialettica tra i presidenti il peso di quello eletto direttamente sarebbe assai maggiore. Insomma, con la riforma il ruolo del presidente della Repubblica nella formazione del governo scompare.
La costituzione del 1948 assegna centralità al Parlamento: che fine fa il Parlamento dentro questo ridisegno?
Ruolo e funzione del Parlamento sono già oggi assai ridotti, visto l’uso distorto e improprio di decreti legge e voto di fiducia. Con la riforma, che oltre a prevedere l’elezione diretta del premier contempla l’assegnazione del 55% dei seggi alla coalizione che ottiene più voti, il ruolo del Parlamento scompare del tutto. Basta osservare ciò che è accaduto nelle Regioni e nei Comuni, dove il solo che ha mantenuto un ruolo politico è il presidente o il sindaco.
Altra novità, la cosiddetta sfiducia costruttiva...
Se il governo va in crisi il capo dello Stato può riassegnare l’incarico di formare il governo al presidente dimissionario o a un altro parlamentare della maggioranza. Se il nuovo governo non ottiene la fiducia una prima e una seconda volta, il presidente della Repubblica deve sciogliere le Camere. Il capo dello Stato non può dunque nominare nessuno che sia al di fuori della maggioranza, e anche questo limita i suoi poteri. Di fatto, è il meccanismo del simul stabunt simul cadent che esiste nelle Regioni: ciò terrebbe le forze politiche in Parlamento sempre sotto ricatto, così come in fondo lo sarebbe lo stesso presidente del Consiglio.
L'articolo 1 della Costituzione afferma che la sovranità appartiene al popolo, ma in un meccanismo del genere la sovranità dove andrebbe a finire?
Andrebbe a finire nelle mani del capo: quello ipotizzato è un meccanismo di scelta dell'autocrate che governerà con mani libere per cinque anni. In sostanza, se la riforma venisse approvata, usciremmo dal contesto della democrazia costituzionale ed entreremmo nel modello delle autocrazie elettive: un modello in cui si elegge un autocrate e si fa finta che la democrazia consista nel mettere la scheda dell'urna per scegliere il capo.
Quali rischi intravede per l'assetto democratico del Paese?
Il rischio è un ulteriore impoverimento del già impoveritissimo pluralismo. Tutto sarebbe nelle mani dell'uomo o della donna al comando, e non esisterebbero contropoteri capaci di bilanciare la forma di governo, come oggi fa il Quirinale. Inoltre, il Parlamento sarebbe costantemente sotto ricatto: già oggi il governo la fa da padrone e potrà farlo ancora di più. Si può aggiungere che, paradossalmente, un meccanismo così rigido potrebbe rendere il governo più debole, non più forte.
In che senso?
Se si verificassero, come sempre accade, tensioni interne alle forze di maggioranza, non vi sarà altra strada che le elezioni anticipate. Oggi il sistema si basa su meccanismi flessibili, che consentono di trovare alternative, di individuare aggiustamenti di strategie; se passa la riforma ciò non sarà più possibile. Come per tutto ciò che non si flette, il rischio è che si spezzi.
Esiste in altri Paesi a democrazia matura un sistema simile?
No, non esiste in nessuna democrazia costituzionale. In nessun altro Paese esiste quella che sembra una ossessione tutta italiana, cioè il fatto che si voglia garantire matematicamente la creazione di una maggioranza assoluta in Parlamento. Siamo arrivati al paradosso che nel testo in circolazione il premio di maggioranza assegna il 55% dei seggi al primo arrivato senza prevedere una soglia minima di voti per accedere al premio.
Se abbiamo ben capito, con il 20% dei consensi, o anche meno, si otterrebbe comunque il 55% dei seggi…
Esattamente così. Ricordo che la legge elettorale detta “porcellum” fu bocciata dalla Corte costituzionale proprio perché non prevedeva una soglia minima per l’attribuzione del premio di maggioranza. La riforma costituzionale, quindi, potrebbe essere dichiarata incostituzionale, perché la Corte può sottoporre a controllo anche le leggi di revisione costituzionale.
Altra ossessione italiana è quella della governabilità. Questa riforma la garantirebbe?
A volte le parole nascondono retropensieri: chi evoca la governabilità, in realtà vorrebbe un popolo docile, disposto a farsi governare. Davvero non si capisce cosa il governo voglia di più: controlla quasi il 60% del Parlamento, eppure va avanti a decreti e voti di fiducia. Camera e Senato non discutono nemmeno più la legge di bilancio, anzi siamo al paradosso che quella di quest’anno non sarà nemmeno emendabile. Abbiamo già un eccesso di cosiddetta governabilità. Il problema vero è che patiamo una carenza drammatica di rappresentanza, bisognerebbe fare riforme in senso esattamente contrario a quello proposto, rafforzando il Parlamento e indebolendo il governo.
Una riforma così fatta, qualora mai sciaguratamente dovesse entrare in vigore, avvicinerebbe o allontanerebbe il corpo elettorale dalle istituzioni?
Lo allontanerebbe dal Parlamento, lo avvicinerebbe solo al capo. Una riforma di questo genere indurrebbe ad assumere atteggiamenti politicamente passivi, come il culto del capo. In fondo, è questo l’obiettivo che persegue chi propone tali riforme.
Possiamo parlare di regressione della democrazia?
Senza dubbio. La democrazia rappresentativa è una cosa seria: le forze politiche devono faticare per creare consenso, per far valere le proprie idee, devono discutere, confrontarsi. Con la riforma Meloni la dinamica politica si ridurrebbe ad andare alle urne ogni cinque anni e tra un voto e l’altro ci sarebbe il vuoto. Sarebbe una democrazia a singhiozzo. Già oggi chi dice “ho vinto le elezioni lasciatemi governare” si pone fuori dal disegno costituzionale.
Insomma, la Costituzione non vuole che nessuno sia libero di fare quello che vuole…
Esatto, lo stesso popolo sovrano deve agire “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Chi promuove la riforma in discussione ipersemplifica il quadro e pensa che il popolo sia una massa di persone incapace di occuparsi di questioni politiche con costanza e impegno quotidiano. È un modo di pensare che mostra un gran disprezzo per i cittadini e che si pone agli antipodi della democrazia costituzionale.