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In Italia si è poveri anche se si lavora. Già prima della pandemia l’11,8 per cento dei lavoratori era a rischio povertà, con uno su otto che viveva in una famiglia con reddito disponibile insufficiente a coprire i fabbisogni di base. Dopo il Covid e con la guerra in Ucraina questa situazione è peggiorata. D’altra parte, è risaputo che l’incidenza della povertà lavorativa sia un trend in crescita negli ultimi tempi e che sia aumentata: i working poor sono passati dal 10,3 per cento del 2006 al 13,2 del 2017, tre punti percentuali in poco più di un decennio, molto al di sopra della media europea.
Il fenomeno colpisce di più chi vive in nuclei monoreddito, chi ha un’attività autonoma e quanti tra i dipendenti hanno un impiego part-time. E naturalmente le donne: nel 2017 la quota delle lavoratrici con bassa retribuzione era al 27,8 per cento contro il 16,5 degli uomini. Questa la condizione drammatica delineata dal rapporto “Disuguitalia: ridare valore, potere, dignità al lavoro” di Oxfam Italia, che restituisce una fotografia delle moderne forme di sfruttamento lavorativo e di un mercato profondamente iniquo, con ampi divari territoriali, generazionali e di genere, che produce strutturalmente povertà.
“Il lavoro, pilastro fondativo del nostro patto di cittadinanza, rappresenta la base per la dignità e la libertà dell’individuo – afferma Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam -. Con il proprio lavoro ognuno è chiamato a concorrere al progresso materiale e spirituale della società. Oggi però troppo spesso è leso nella sua dignità, per troppe persone non basta ad avere prospettive di un futuro dignitoso. Il dettato costituzionale rischia di subire una pericolosa rilettura con la povertà lavorativa assurta nei fatti a fondamento della Repubblica”.
L’indagine, scritta da Mikhail Maslennikov, policy advisor di Oxfam e svolta dai centri gestiti dalla Ong con la Diaconia Valdese tra novembre e dicembre 2021 tra gli operatori dei community center di dieci città italiane, analizza alcuni dei fattori che hanno portato alla crisi del lavoro nel nostro Paese, che viene da lontano ed è diventata sempre più insostenibile: precarietà, salari bassi, saltuarietà e discontinuità, forti e crescenti disuguaglianze, sfruttamento, insicurezza, valore sociale scarsamente riconosciuto. E anche guardando al futuro, il pericolo che si mantenga lo status quo è concreto: dopo il primo anno di pandemia che ha esposto le vulnerabilità lavorative di ampi segmenti della forza lavoro, il 2021, anno della ripartenza, ha dato segnali positivi con un buon recupero dei tassi di occupazione, ma solo in apparenza, perché la nuova occupazione è risultata prevalentemente a tempo determinato e di breve durata.
“La congiuntura pandemica, la prospettiva di una nuova recessione associata al conflitto in Ucraina, la spirale inflazionistica rischiano di impoverire ulteriormente il lavoro e di ampliare i divari esistenti – dichiara Mikhail Maslennikov -. Anche le trasformazioni economiche in atto, le transizioni digitale e verde, possono acuire le disparità, allargando la forbice tra i nuovi vincenti e chi rischia, se non adeguatamente supportato, di rimanere indietro”.
Oxfam critica anche il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che assomiglia più a una sommatoria di interventi che a un’organica agenda di sviluppo e manca di una solida visione di politica industriale. I comparti su cui si punta sono costruzioni, edilizia, commercio, quelli in cui i posti di lavoro tendono a essere poco qualificati, precari e scarsamente pagati. La maggior parte delle risorse è destinata a incentivi alle imprese senza condizionalità in termini di innovazione, sostenibilità, tenuta dei livelli occupazionali e qualità del lavoro.
“Proponiamo di limitare l’uso di deroghe, da parte delle stazioni appaltanti che struttureranno i bandi del Pnrr e del Piano nazionale degli investimenti complementari – prosegue Maslennikov -, al vincolo imposto agli operatori economici aggiudicatari di destinare ai giovani sotto i 36 anni di età e alle donne almeno il 30 per cento dell’occupazione aggiuntiva creata. Questo per evitare il rischio di vedere perpetuate vulnerabilità esistenti, soprattutto con riferimento alla nuova occupazione femminile. Inoltre, bisognerebbe garantire un robusto monitoraggio del rispetto della clausola occupazionale, prevedendo ‘flag’ specifici per le nuove assunzioni da parte degli aggiudicatori dei bandi del Pnrr e del Pnc all’interno del sistema delle comunicazioni obbligatorie”.
Tra le altre proposte e richieste alla politica della Ong, disincentivare il ricorso ai contratti a termine, con previsione di causali stringenti e circoscritte, introdurre limitazioni all’esternalizzazione del lavoro mediante appalti a imprese multiservizi e ampliare le condizionalità alla qualità del nuovo lavoro creato. Poi, introdurre anche in Italia un salario minimo legale "per colmare gli ambiti di attività non coperti dai contratti collettivi e rafforzare il potere negoziale dei lavoratori autonomi che condividono alcune caratteristiche con i lavoratori subordinati". Infine, allargare la validità dei contratti collettivi nazionali più rappresentativi a tutti i lavoratori dei rispettivi settori, uno strumento che consentirebbe di affrontare l’emergenza del lavoro sfruttato e sottopagato esacerbata dall’inflazione e dall’impatto della guerra sulla crescita.