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Dalla più grande azienda pubblica italiana, il più grande smacco a lavoratori e cittadini. Negli ultimi mesi, Poste Italiane è al centro delle cronache per una riorganizzazione profonda, e un nuovo piano industriale, che prevede chiusure a tappeto di uffici su tutto il territorio nazionale e riduzione dei punti di consegna (con conseguente taglio di personale). La Slc Cgil ha espresso contrarietà a provvedimenti che, se gestiti in maniera unilaterale dall’azienda, avranno ripercussioni enormi sulla vita quotidiana delle persone. Ma nei giorni scorsi l’azienda ha chiuso un accordo con la Cisl e altri tre sindacati, estromettendo dal tavolo Cgil e Uil.
Riccardo Saccone, segretario generale Slc, lo avete definito un accordo farsa. Perché quanto successo è grave?
Lo strumento che hanno utilizzato è assolutamente sbagliato. Hanno aperto un conflitto di lavoro relativo all’organico e alle condizioni dei lavoratori, e poi ci hanno messo dentro anche il grande tema della riorganizzazione derivante dal piano industriale. Questa è la grande forzatura di questa vicenda, perché la riorganizzazione è legata agli impegni sottoscritti nel momento della firma del nuovo contratto nazionale, e che ci riguarda tutti. Non si può, con il mezzo improprio dell’apertura di un conflitto di lavoro – che può essere sollevato anche da una parte delle organizzazioni sindacali - decidere a priori chi sta al tavolo su un tema così determinante, sul quale invece devono obbligatoriamente essere coinvolte e consultate tutte. Il merito decide chi sono i soggetti che hanno diritto a sedersi a un determinato tavolo. Questa è la prassi della nostra azione quotidiana.
Dunque sono state commesse una serie di scorrettezze anche formali. Ma in cosa consiste l’accordo trovato sulla riorganizzazione?
Voi immaginate di aprire un conflitto di lavoro per ottenere una serie di cose, e poi ci finisce dentro anche una riduzione delle zone di consegna, nell’ordine delle 3.500. Questo vuol dire che, quotidianamente, un portalettere che prima aveva una zona di consegna di 10 km, per esempio, adesso dovrà farne il doppio, dal momento che se riduci le zone di consegna riduci anche i lavoratori. Siamo di fronte a un grosso problema di organizzazione del lavoro, di gestione quotidiana. Questa è l’unica vera azienda paese che è rimasta in Italia. Ma può essere gestita in questo modo?
Questa è la domanda delle domande, che ne evoca un’altra: Poste aveva annunciato l’intenzione di abbandonare gradualmente il servizio universale. A che punto siamo?
Noi siamo perfettamente consapevoli che il mondo sta cambiando, che la corrispondenza sta cambiando. Ci si sta spostando sempre di più verso una logistica integrata, le lettere sono sempre meno, i pacchi sempre di più. Ma in un paese serio, un patrimonio come quello di Poste Italiane dovrebbe essere oggetto di un confronto davvero profondo e aperto a tutti su come affrontare e governare la trasformazione. La crescita dell’e-commerce, la digitalizzazione dei servizi, sono temi cruciali che non possono essere liquidati in due minuti a un convegno. Dobbiamo ragionare di quelle che sono le ricadute della trasformazione su lavoratori e cittadini, perché parliamo di cose che impattano moltissimo sulla vita delle persone. Allora noi vorremmo affrontare un ragionamento serio sul futuro di questa azienda, con tutto quello che ne consegue anche rispetto al segmento degli appalti, per esempio, dei subappalti, del finto lavoro autonomo. Insomma, andrebbe fatto un po’ di ordine. Ecco, di tutto questo vorremmo parlare, ma non mi pare che ci siano le condizioni.
L’altro grande pezzo della riorganizzazione riguarda la chiusura degli uffici postali sul territorio, molti di questi nelle aree interne. Si pensi al Veneto. Questo non rischia di minare fortemente l’accessibilità ai servizi, nonché di isolare ulteriormente periferie ed entroterra?
Poste potrebbe diventare davvero quella sorta di argine che fa in modo che i processi di digitalizzazione avvengano in maniera filtrata, senza rischi per i cittadini. Non si può lasciare le persone da sole a gestire questi processi, sbaraccando baracca e burattini e chi s’è visto, s’è visto. Poste è azienda paese proprio perché dovrebbe occuparsi della coesione sociale, della democrazia economica. Se nelle aree interne chiudiamo anche l’ufficio postale, condanniamo un pezzo della popolazione a non uscire mai dalla marginalità economica, ci rassegniamo a non superare più il digital divide.
Guardiamo al futuro. Dopo quella che avete definito “una vera e propria epurazione”, ovvero l’esclusione di Slc e Uil dalla firma dell’accordo, quali saranno i prossimi step?
Il primo è senz’altro quello di parlare con le persone, le lavoratrici e i lavoratori che hanno approvato il nuovo contratto, pur evidenziandone delle criticità. C’è un malessere di fondo per quello che avviene in azienda, e noi dobbiamo provare a interpretarlo, incanalarlo. E poi bisogna porre delle domande a Poste, perché con questi ultimi comportamenti ha abbandonato una posizione di terzietà e ne ha presa una ben precisa. Su questo bisogna essere chiari: se qualcuno pensa che questa cosa possa in qualche modo finire nel dimenticatoio, si sbaglia. Noi vorremmo discutere con i vertici, ma le regole vanno rispettate e su questo noi non indietreggiamo. Siamo pronti anche alla mobilitazione.