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Sulla base di una proposta di legge presentata da Pio La Torre, il 13 settembre 1982, viene promulgata la legge n. 646, che introducendo nel codice penale l’art. 416-bis prevederà per la prima volta nell’ordinamento italiano il reato di associazione di tipo mafioso e la confisca dei patrimoni di provenienza illecita.
L’articolo 1 del provvedimento recita:
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri (…) Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego. Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare.
Nato a Baida, un’antica frazione di Palermo, da padre palermitano e da madre di origini lucane, entrambi contadini poverissimi, sin da giovane Pio La Torre si impegna nella difesa dei diritti braccianti nella Confederterra, nella Cgil, nella Partito comunista italiano.
“Nel 1947 - ricordava Emanuele Macaluso in una delle sue ultime interviste rilasciata a Buona Memoria lo scorso anno - io divenni segretario generale della Cgil Sicilia, La Torre lavorava invece al Partito, a Bisacquino. Qui, durante l’occupazione delle terre, ci fu uno scontro con la polizia. Pio venne arrestato insieme a un gruppo di contadini perché un commissario, testimoniando il falso, sostenne che lui gli aveva un colpo di legno in testa. Per un periodo, dopo la morte di Fasone, bravissima persona, morto giovanissimo, io feci a Palermo sia il segretario della Camera del lavoro che il segretario regionale. Pio La Torre mi sostituì prima alla guida della Camera del lavoro e poi, nel 1956, quando andai al Pci, alla Segreteria regionale della Cgil. Il nostro è stato sempre un rapporto intenso, una collaborazione affettuosa, un rapporto davvero forte”.
Nel 1969 Pio si trasferisce a Roma per prendere la direzione prima della Commissione agraria e poi di quella meridionale. Messosi in luce per le sue doti politiche, Enrico Berlinguer lo farà entrare nella Segreteria nazionale del Partito. Nel 1972 viene eletto deputato alla Camera nel collegio Sicilia occidentale, e da subito in Parlamento si occupa di agricoltura. Diceva: “Occorre spezzare il legame esistente tra il bene posseduto e i gruppi mafiosi, intaccandone il potere economico e marcando il confine tra l’economia legale e quella illegale”.
Rieletto alla Camera nel 1976, è componente della Commissione Parlamentare Antimafia fino alla conclusione dei suoi lavori nel 1976; nello stesso anno è tra i redattori della relazione di minoranza della Commissione antimafia, che accusava duramente Giovanni Gioia, Vito Ciancimino, Salvo Lima e altri uomini politici di avere rapporti con Cosa Nostra e nel 1980 propone una legge che introduce il reato di associazione di tipo mafioso.
Alla domanda “Generale, perché fu ucciso il comunista Pio La Torre?”, il 10 agosto 1982, nell’ultima intervista prima della sua uccisione rilasciata al giornalista Giorgio Bocca, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, da poco nominato prefetto di Palermo, rispondeva: “Per tutta la sua vita. Ma, decisiva, per la sua ultima proposta di legge”.
“La Torre - raccontava sempre Emanuele Macaluso qualche anno fa - ritorna in Sicilia quando sono già cominciati i delitti di mafia. È lui a chiedere di mandare nell’isola il generale Dalla Chiesa. È lui ad avanzare la proposta del reato di associazione mafiosa e della confisca dei beni. È sempre lui a sottolineare e il pericolo dell’infiltrazione della mafia nella costruzione della base missilistica di Comiso, contro le mafie ed in nome della pace. Io credo che la richiesta di sequestro dei beni mafiosi sia stato il motivo principale per cui la mafia lo abbia ucciso. La sua richiesta fu una condanna, ed infatti poco dopo fu ucciso. Nell’aprile 1982 io ero direttore de l’Unità. Stavamo preparando il numero del Primo maggio, giorno in cui il giornale diffondeva 1.000.000 di copie. All’improvviso irrompe nella stanza il caporedattore del giornale, Carlo Ricchini, il quale mi dice: 'Hanno ucciso Pio La Torre'. Immaginate quale fu la mia reazione e la mia emozione. Così seppi dell’uccisione di Pio La Torre. Il lunedì di Pasqua Pio era venuto a Roma, a casa mia. Mi aveva portato il formaggio fresco di cui ero goloso. Io allora abitavo a via Monferrato, pranzammo insieme e scendemmo dopo pranzo a fare una passeggiata sul Lungotevere. Mentre passeggiavamo lui mi disse: 'Dì a Berlinguer che adesso tocca a noi!'. La mafia aveva già ucciso, ed era chiaro che quel ‘noi’ era riferito a se stesso”.