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Il 27 settembre del 2015 moriva a Roma Pietro Ingrao, cento anni compiuti da poco, partigiano, a lungo direttore de l’Unità e presidente della Camera durante il rapimento Moro, una figura storica del Partito comunista italiano. “Ingrao è stato un leader importante nella nostra storia repubblicana - diceva quel giorno il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - È stato presidente della Camera in un passaggio travagliato e difficile della vita del Paese. Non ha avuto paura di esplorare terreni nuovi, né di esprimere dissenso anche quando questo lo ha esposto a sacrifici sul piano personale. Nel difendere il proprio punto di vista ha tuttavia sempre cercato di assumere una visione nazionale e di tenere vivo il confronto con gli altri. La sua passione resterà un patrimonio del Paese e la sua libertà interiore è un esempio per le giovani generazioni”.
Fra le carte lasciate da Pietro Ingrao, Alberto Olivetti e Maria Luisa Boccia hanno trovato qualche anno fa un manoscritto intitolato Memoria, pubblicato senza variazioni per le edizioni Ediesse. Un testo che ha il carattere di un bilancio di vita, un dialogo con se stesso fatto alla fine di un lungo percorso. Gli anni della formazione, la fase della dirigenza del Partito, i punti rimasti ancora irrisolti o motivo di riflessione e pentimento - tra questi senza dubbio il ’56 Ungherese ed il voto a favore dell’espulsione del gruppo de il Manifesto - tessono la trama di un un racconto sciolto ed elegante, nel quale Pietro, parlando di sé, racconta l’Italia e la sua storia.
Ingrao è stato uno dei padri della Repubblica, un protagonista del Novecento che ha vissuto intensamente cento anni della storia del nostro paese: la lotta partigiana, la guerra, la direzione de l’Unità, il rapporto con l’Urss, la guerra di Corea, Stalin, il 1956 ungherese, il Vietnam e l’autunno caldo, Moro, la crisi della democrazia dei partiti, il 1989 e la crisi dell’idea comunista. La fine del partito.
Scriveva Paolo Franchi sul Corriere della Sera in occasione del suo centesimo compleanno: “La Resistenza, la direzione dell’Unità, Botteghe oscure, la Camera dei deputati, di cui sarà, tra il 1976 e il 1979, il primo presidente comunista, il Centro per la riforma dello Stato. Il cursus honorum del Pci Ingrao, amato dalla sua gente assai più che da gran parte dello stato maggiore del partito, dal quale lo ha diviso per sempre la battaglia 'da sinistra' data (e persa) nel 1966, all’undicesimo congresso, lo farà tutto. A quel nome grande e terribile, comunismo, e a quel 'grumo di vissuto' rappresentato dalla vicenda storica dei comunisti italiani, resterà fedele fino e oltre il momento dell’ammainabandiera. Ma a modo suo. Che non è stato il modo di un movimentista (orrendo neologismo) o di un sognatore. Perché Ingrao guarda attento e curioso ai mutamenti che investono la società, il lavoro, l’economia, i movimenti collettivi. E anche il costume”.
“Pietro Ingrao è stato un protagonista davvero singolare della vicenda politica del Novecento - diceva nel 2015 Niki Vendola - Attraversando i tornanti cruciali di un’epoca di ferro e di fuoco, la sua esistenza è stata come attratta irresistibilmente nel gorgo della grande storia, il suo cammino s’è fatto trincea e battaglia. La milizia politica è stata per lui e per un pezzo della sua generazione l’espressione naturale di un forte sentire morale, lo 'stare eretti' dinanzi alla barbarie dei fascismi e della guerra. La sua inquietudine e curiosità e passione intellettuale è stata innanzitutto orientata - come tutti sanno dalla sua biografia - alla rappresentazione artistica, alla letteratura, al cinema: e cioè all’arte come strumento di incivilimento, come cognizione della bellezza (...) La 'canzone' di Ingrao sarà denuncia civile, lotta clandestina, lo stare da un parte. Insomma: una scelta di vita”.
“Che io sappia - scriveva Alberto Olivetti sul Manifesto del 26 maggio 2017 - il testo poetico più antico che ci resta di Ingrao risale al 1933. Quel componimento, Coro per la nascita d’una città, fece ottenere l’anno successivo al giovane poeta diciannovenne un ambito riconoscimento. Ingrao risultò infatti terzo, dopo Leonardo Sinisgalli e Attilio Bertolucci, stante il giudizio espresso, ai primi littoriali della cultura, da Giuseppe Ungaretti, Aldo Palazzeschi e Riccardo Bacchelli. E Ingrao, che affettava di non tener in gran conto quel testo precoce, rammentava con una punta di compiacimento come, di quel suo Coro, Eugenio Montale avesse apprezzato i versi finali”.
Nel 2007 Pietro Ingrao pubblica Volevo la luna, un testo a cui affida le sue riflessioni sui grandi temi del nostro tempo, la pace, la democrazia, il razzismo, le lotte operaie. “Quando dico 'volevo la luna' - spiegava - nomino l’esigenza di un salto, prima di tutto nel linguaggio e nelle relazioni. Nella politica è questo che mi coinvolge: nella vita umana le leggi contano, e dunque l’attività legislativa è importante, non può essere sottovalutata. Ma c’è un di più nella politica che è comunicazione, relazione. Una relazione che assume le forme più strane, particolari. Questo in me si è unito spesso con… come lo vogliamo chiamare? ma sì, chiamiamolo amore per la natura. I cieli, le inclinazioni del tempo che scorre, l’alzarsi della luna nelle notti di estate: mi ha sempre trascinato, mi ha dato molta emozione”. Un testo da rileggere con la consapevolezza che in fondo - la luna - la vogliamo ancora.