8,1 milioni di maiali. 26 mila allevamenti. Un giro d’affari di 4,3 miliardi di euro, che arrivano a 9,1 miliardi se si aggiunge la filiera della trasformazione, 100 mila posti di lavoro. I numeri del settore suinicolo, strettamente legato al made in Italy, sono davvero ragguardevoli. Ancor più se si considera che l’export pesa per 2,3 miliardi. Numeri che sono minacciati dalla peste suina africana: la sua diffusione rischia di mettere in ginocchio un intero comparto, che da noi è sinonimo di eccellenza.

Dopo il primo caso registrato nel 2022 a Ovada, in provincia di Alessandria, e la definizione di un’ampia zona infetta a cavallo tra Piemonte e Liguria, gli allarmi sono stati lanciati a più riprese e le richieste rivolte al governo di intervenire e correre ai ripari anche. Perché questo virus portato dai cinghiali selvatici e arrivato ai maiali domestici, che si sposta velocemente portato con facilità dalle ruote delle auto e dei trattori e dalle suole delle scarpe, adesso si sta espandendo a macchia d’olio nel Nord Italia.

Misure insufficienti

Tre commissari straordinari nominati in questi due anni dall’esecutivo hanno sottovalutato la minaccia, tant’è vero che le misure finora adottate sono state giudicate insufficienti e scoordinate. Ad affermarlo sono gli esperti del gruppo veterinario di emergenza della Commissione europea in un rapporto di agosto scorso.

Dopo una missione in Lombardia e in Emilia Romagna, l'Eu Veterinary Emergency Team ha sottolineato che “la strategia di controllo” della malattia “nel Nord Italia deve essere migliorata”. E poi che è necessario un piano comune e coordinato per l'intera area, un “urgente piano B esteso per il controllo e l'eradicazione della malattia”, perché “l'epidemia sembra avanzare più rapidamente delle misure” e “c'è il timore che si diffonda verso est e verso sud, verso la Toscana”.

Che cos'è

L’Efsa, Autorità europea per la sicurezza alimentare, spiega che la peste suina africana “è una malattia virale dei suini e cinghiali selvatici che causa un'elevata mortalità negli animali da essa infettati”. Il virus che la provoca, sebbene sia innocuo per l'uomo, genera però “notevoli disagi socio-economici in molti Paesi”. Infatti, le aree interessate sono coinvolte nel “decesso degli animali, nelle restrizioni agli spostamenti di maiali, cinghiali selvatici e dei loro prodotti nonché nel costo delle misure di controllo”.

Nuovi focolai

Ogni giorno in Italia si segnalano nuovi focolai negli allevamenti e migliaia di capi di bestiame vengono abbattuti. La cosiddetta “zona rossa”, cioè un’area dove sono stati riscontrati casi nei suini domestici, si estende da La Spezia a Parma, prosegue per Cremona, Milano, Vercelli, Alessandria. In questo modo il settore rischia il collasso, con perdite che secondo le associazioni dei produttori ammontano a 30 milioni di euro al mese. E se il numero dei capi diminuisce, anche i posti di lavoro sono a rischio.

“Poiché non esiste un vaccino, se c’è un animale malato devi sopprimere tutto l’allevamento – spiega Davide Fiatti, segretario nazionale Flai Cgil – E senza animali, o con la riduzione del numero dei capi, si crea un problema occupazionale. Spesso e volentieri i lavoratori sono inquadrati come agricoli e hanno ammortizzatori sociali limitati. Oltre a questi, ci sono gli addetti dell’industria della trasformazione”.

Una cassa piccola piccola

Gli agricoli possono usufruire della Cisoa, cioè la cassa integrazione speciale operai agricoli, che però non è come quella dell’industria: è riconosciuta anche in caso di riduzione dell’attività lavorativa, per massimo 90 giornate annue, con un altro limite e cioè che non si può interrompere e poi far ripartire. Con questo meccanismo spesso i lavoratori perdono una parte delle giornate di cassa.

“L’impatto sull’occupazione per chi è impiegato negli allevamenti è grande – spiega Alberto Semeraro, segretario generale Flai Lombardia, regione che conta il maggior numero di allevamenti e capi di suini – Qui la malattia è distribuita, va a momenti e a zone, come tutte le pestilenze. Naturalmente più è intensivo l’allevamento e più velocemente si diffonde. La Regione ne monitora passo passo l’andamento, ha anche fatto degli stanziamenti ma secondo noi manca un confronto serrato e una discussione organica. Poi ci sono i macelli, nel basso bresciano, a Mantova, a Cremona, ma soprattutto in Emilia Romagna: con la mancanza o la diminuzione dei capi, anche qui si riducono le lavorazioni. La peste suina però non è l’unica pandemia che stiamo vivendo, c’è anche la blue tongue che colpisce i bovini”.

Il nodo di fine anno

Tra le province lombarde dove l’allarme è alto c’è Mantova, 2 mila lavoratori nei macelli più altri 2 mila nei salumifici e nel fine filiera. “Già un anno e mezzo fa abbiamo denunciato la situazione – dice Ivan Papazzoni, segretario provinciale Flai Cgil – E al di là delle boutade, come abbattere i cinghiali o mettere le reti ai caselli autostradali, non ci sono stati provvedimenti seri. Il punto è che si sta andando sempre di più verso un restringimento delle attività: se si abbattono maiali all’ingrasso è un conto, è un altro se si abbattono anche le scrofe. Il problema per i lavoratori si proporrà tra poco, verso la fine dell’anno, quando sarà stato usato tutto, ferie, recuperi orari. Agli allevatori sono state fatte promesse di ristori, ma i lavoratori dei macelli? La cassa integrazione per chi è impiegato nei macelli, un attività dura e pesante, è molto penalizzante. Ci vogliono interventi eccezionali, altrimenti a pagare saranno i lavoratori”.

10 mila addetti

A Modena al centro delle preoccupazioni c’è l’incremento delle giornate di fermo produttivo registrato da alcune aziende di macellazione: la filiera conta 2 mila addetti nelle due principali imprese del settore, che hanno già iniziato a ridurre la produzione cancellando un giorno di attività settimanale. Altri 8 mila sono i lavoratori dei salumifici, delle attività conserviere e di tutte le produzioni connesse alla trasformazione delle carni.

“Per affrontare la situazione ci vuole un intervento straordinario del governo – dice Stefania Notariale, della Flai provinciale – perché il problema non si può gestire con la cassa integrazione ordinaria. Significherebbe mettere in difficoltà le aziende. All’inizio le richieste di cassa integrazione erano sotto controllo, si trattava di 2 o 3 giorni al mese. Ora cominciano a essere di più. Il macello di Magreta ha già fatto quattro turni di fermo questa settimana, la prossima ne farà tre. Dopo la recente esplosione di casi stiamo facendo incontri con le aziende per valutare se c’è la possibilità di aprire la cassa integrazione”.

Export bloccato

“Le conseguenze della peste suina sono state finora sottovalutate dal governo – rincara Fabio Singh, segretario generale Flai Cremona – In questo modo Cremona e il mantovano, limitrofe a quelle dove le condizioni erano più gravi, sono diventate a loro volta zone rosse. A rischio che cosa c’è? Tutta l’occupazione, a partire dagli allevamenti, e tutta la filiera. Perché impatta tantissimo sul fatturato di queste eccellenze. Quasi il 50 per cento dell’allevamento suinicolo italiano si trova in Lombardia, a Cremona, Mantova, Brescia, 1 milione e 100 mila capi in ogni provincia. Ed è un grosso pezzo del made in Italy. La prima cosa che hanno fatto alcuni Paesi come Cina e Giappone, è stata bloccare l’importazione dei prodotti dall’Italia. Però non è tardi per intervenire, si può pensare di trovare una soluzione insieme, ragionando con il sindacato. Ma bisogna fare in fretta”.