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Da una decina d’anni, la “pastasciutta antifascista” è probabilmente la manifestazione più diffusa dell’antifascismo italiano. Sempre più Comuni del nostro paese nei dintorni del 25 luglio celebrano collettivamente il gesto che nel 1943 fece la famiglia Cervi a Campegine, nel Reggiano per festeggiare la caduta del fascismo. Alla notizia della destituzione e dell’arresto di Mussolini, i Cervi offrirono quintali di pastasciutta (rigorosamente in bianco, come si mangiava allora) ai propri compaesani. Purtroppo il fascismo rinacque dalle proprie ceneri e durante i mesi terribili della Repubblica di Salò, i sette fratelli Cervi – Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore – partigiani, pagarono con la vita l’adesione alla Resistenza e il loro amore per la libertà, trucidati dai fascisti.
Alberto Grandi, professore di Storia dell’alimentazione all’Università di Parma, autore insieme a me di un podcast molto seguito: Doi - Denominazione di origine inventata, disponibile su tutte le piattaforme), illustra i motivi per cui il fascismo osteggiava la pasta.
“Il rapporto tra il fascismo e la pastasciutta era stato conflittuale ancor prima della Marcia su Roma – spiega il docente –. Lo stesso Mussolini, romagnolo di nascita, probabilmente era poco avvezzo al consumo di pasta, come quasi tutti gli italiani – esclusi i napoletani e i siciliani – fino alla prima guerra mondiale. Proprio nel primo dopoguerra, però, mentre il fascismo inizia la sua lenta ma inesorabile conquista del potere, gli italiani scoprono la pasta e se ne innamorano. La scoprono in America, dove le varie comunità italiane, così distanti nella madrepatria, si mescolano e creano una cultura nazionale che in Italia ancora non esiste. La pasta, in qualche modo, ne diventa il simbolo, e automaticamente viene associata al sogno americano”.
Tutto questo spiega in buona misura l’ostilità del regime fascista che negli anni Venti considerava la pasta una sorta di moda americana di importazione, lontana dal ruralismo alla base dell’ideologia di regime. L’ostilità si fece via via più concreta soprattutto dopo il 1925, aggiunge Grandi, quando venne lanciata la famosa “Battaglia del grano”, che aveva lo scopo di far raggiungere all’Italia l’autosufficienza cerealicola. La pasta era un problema da questo punto di vista, dato che il grano duro per produrla è sempre stato coltivato in quantità insufficiente nel nostro Paese. Quindi meno pasta mangiavano gli italiani e meno grano duro si doveva importare.
Infine ci si misero anche i futuristi, in particolare Filippo Tommaso Marinetti, che nel 1931 così si esprimeva nel Manifesto della cucina futurista: “A differenza del pane e del riso, la pastasciutta è un alimento che si ingozza, non si mastica. Questo alimento amidaceo viene in gran parte digerito in bocca dalla saliva e il lavoro di trasformazione è disimpegnato dal pancreas e dal fegato (…). Ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo”.
Gli sforzi propagandistici si scontrarono però con una passione incontenibile degli italiani per la pasta. La vicenda dei fratelli Cervi ci dimostra che in qualche modo la pastasciutta era considerata da sempre un simbolo di libertà: un piccolo, silenzioso e quotidiano gesto di resistenza nei confronti del Regime, il cui consenso era solo apparentemente monolitico.
Daniele Soffiati, segretario generale Cgil Mantova