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Alle 16 e 58 del 19 luglio 1992 una Fiat 126 imbottita di tritolo, parcheggiata sotto l’abitazione della madre di Paolo Borsellino, a Palermo, detona uccidendo il giudice e cinque agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Unico sopravvissuto l’agente Antonino Vullo, scampato alla strage perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta. Quella Croma alla cui guida si trovava per caso. Paolo Borsellino aveva infatti l’abitudine, nei giorni festivi, di lasciare a casa il suo abituale autista, Salvatore Didato, che piangendo constaterà: “Debbo al dottor Borsellino la vita, non voleva mai che lavorassi la domenica”.
“Non erano ancora le 17 - racconterà l’agente Vullo - Io ero alla guida della Croma blindata del dottor Borsellino. Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina…. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto”.
“Un attentato dinamitardo - comunicava l’Ansa alle 17 e 16 - è stato compiuto a Palermo. Vi sono coinvolte numerose automobili e sono molti i feriti. Sul luogo dell’esplosione che è stata avvertita ad alcuni chilometri di distanza, sono confluite tutte le pattuglie volanti della polizia e dei carabinieri. Sono state richieste autoambulanze da tutti gli ospedali. Secondo le prime indicazioni della polizia, un magistrato sarebbe rimasto coinvolto nell’attentato” (il nome di Paolo Borsellino sarà reso pubblico alle 17 e 47).
“Domenica mattina - racconterà la figlia Lucia - mi aveva proposto di andare al mare con lui e con mio fratello Manfredi. Ma io gli dissi che non potevo, che dovevo andare a studiare a casa di una collega di università perché avevo gli esami in vista. Lui c’era rimasto male. Mi chiese il numero di telefono della casa dove dovevo andare. Glielo diedi, ma lo dimenticò sulla scrivania. Verso il pomeriggio, non mi ricordo che ora fosse, ho sentito da casa della mia collega un rumore, poi sono cominciate ad arrivare le prime notizie, e sono scappata via.”.
“La mattina del 19 luglio - ricorderà anni dopo il figlio Manfredi - complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per ‘fottere’ il mondo con due ore di anticipo (…). Ricordo che in tv vi erano le immagini del Tour de France, ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel ‘tenere comizio’ come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione (…) mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii”.
E invece non si rivedranno mai più. Esattamente come Emanuela, Agostino, Vincenzo, Walter e Claudio non abbracceranno più le loro mamme, i loro papà, i loro amori. Uccisi da Cosa Nostra in quella calda e terribile estate che cambiò la nostra storia.
“Io accetto - diceva Paolo Borsellino in una intervista pochi mesi prima - la… ho sempre accettato il… più che il rischio, la… condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli. Il… la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in… in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare… dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro”.
“Caro nonno, mi dispiace per il 19 luglio 1992…” - scriveva qualche anno fa Fiammetta, figlia di Manfredi, una delle nipoti che Paolo Borsellino non avrà il tempo di conoscere - sintetizzando in fondo il pensiero di tutti noi con la completezza e la sincerità che solo i bambini possono avere.
E di quell’ormai lontano 19 luglio 1992 rimane impressa negli occhi di tutte e tutti noi l’immagine di Maria Falcone, sorella di Giovanni, e Lina Morvillo, mamma di Francesca, accanto ad Agnese Borsellino e ai suoi figli. “Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma nessuno ci impedisce di sognarlo: ce la faremo”.