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I successi dell’Italia nella pallavolo alle ultime Olimpiadi hanno acceso i riflettori sulle professioniste della schiacciata, e si torna a parlare di sport e lavoro. Nello specifico, lo si fa in una delle regioni con il maggior numero di giocatori, e soprattutto giocatrici (l’80 per cento). In Veneto, patria della grande squadra del Conegliano, sono 39.716 i tesserati, e proprio da qui, nei giorni scorsi, si è levato l’annuncio dell’apertura di un tavolo per il contratto collettivo del volley.
Un primo passo per le giocatrici, un grande passo per lo sport – ha commentato, non proprio in maniera letterale – la Federazione, in un articolo uscito sul Corriere del Veneto. “Peccato che un contratto collettivo esista già”, sottolinea però Fabio Scurpa, che per la Slc Cgil ha seguito direttamente le faticose trattative che hanno portato al primo ccnl dello sport. Di tutto lo sport, a prescindere dalle singole discipline.
Nell’ottica del sindacato, infatti, solo individuando degli aspetti universali e dei minimi comuni denominatori si può vincere la sfida di dare agli sportivi retribuzioni adeguate, tutele e diritti che permettano loro di conciliare l’attività agonistica con la vita personale. In primis, il nodo maternità per quanto riguarda le donne. “Noi c’eravamo a tutti i tavoli con il ministro – ricorda Scurpa –, anche quelli relativi alla riforma del settore entrata in vigore un anno fa”.
Sia sulla legge che sul ccnl il sindacalista ribadisce di “aver fatto di tutto per arrivare a garantire un pieno diritto contributivo e previdenziale. Ma non ci siamo riusciti, proprio a causa dell’opposizione delle federazioni” che, come spiega Scurpa, preferiscono l’idea di farsi ognuna il proprio contratto collettivo. E non è difficile capire perché. In serie A, la retribuzione annua lorda può arrivare fino a 70 mila euro, con picchi molto più alti per i giocatori più quotati.
Tutt’altro discorso per la serie B e le altre categorie a scendere, dove fino a prima della riforma lo strumento preferito di contrattazione è stata la scrittura privata. Dunque: niente tutele sanitarie, assicurative e previdenziali. Contrattazione e riforma hanno lavorato su questi aspetti, riconoscendo qualche tutela in più in virtù del superamento dell’annosa dicotomia tra dilettantismo e professionismo (passaggio che per i club, quando si verifica, vuol dire il 30 per cento di costi in più).
“Le federazioni continuano a parlare di semiprofessionismo – dice Scurpa – ma cosa vuol dire questa parola? Purtroppo i fatti sono che spesso atleti altrettanto dotati, ma in categorie diverse, versano i contributi in casse separate, percepiscono retribuzioni effimere”. Sul nodo contributi, Scurpa spiega che la strada è stata intrapresa, ma è ancora lungo il cammino verso la metà della parità: “Per i primi sette anni, questi sportivi versano contributi per il 50 per cento, ma a vuoto, nel senso che cominciano a maturarli a scopo previdenziale solo a partire dai 10 mila euro di retribuzione in su”.
Un vero e proprio dramma contributivo lo definisce il sindacalista, che fa il paio con l’irriducibile dicotomia professionale vissuta da chi, pure praticando sport al livello agonistico, non riesce a raggiungere certi livelli. “O sei legato a una divisa, e allora vivi abbastanza serenamente la tua condizione, oppure sei abbandonato a te stesso”.
Il sindacato ha intrapreso un percorso abbastanza complesso per la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sportivi, con l’obiettivo di arrivare a regole chiare e valide erga omnes. E dunque “fa arrabbiare trovarsi di fronte a queste uscite episodiche. – conclude Scurpa – se volessero veramente, uno strumento esiste già. Il contratto collettivo che abbiamo firmato prevede adeguamenti alle diverse discipline e contesti. Ma fino ad ora, fondazioni e associazioni dilettantistiche si sono sempre messe di traverso”.