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A partire dall’inizio di questo decennio, l’Italia è interessata da una significativa ripresa dell’emigrazione verso l’estero. Si tratta di una nuova emigrazione, sia perché essa ha luogo dopo alcuni decenni di stasi dei movimenti migratori per l’estero, sia perché presenta caratteristiche diverse da quelle della grande migrazione intra-europea del dopoguerra, che aveva visto protagonisti i lavoratori italiani. Il nuovo flusso si è ormai stabilizzato e il numero di partenze ha raggiunto livelli che non si registravano dagli inizi degli anni settanta.
Tutto ciò autorizza per altro a parlare di un nuovo ciclo dell’emigrazione italiana: il terzo, come ho messo in evidenza nel mio libro “Quelli che se ne vanno: la nuova emigrazione italiana” (Il Mulino, 2018). Eppure la problematica è assolutamente assente dal discorso pubblico nel nostro Paese, essendo l’interesse polarizzato sulla tematica dell’immigrazione. E questo è uno dei primi paradossi riguardanti la situazione italiana in materia di migrazioni internazionali. Perciò vale la pena di portare avanti un chiarimento sull’entità e la composizione dei due flussi: quello degli stranieri che arrivano in Italia e quello degli italiani che se ne vanno all’estero. Ciò consapevole del fatto che non è la sola consistenza numerica a determinare la rilevanza sociale e politica di un fenomeno.
L’impatto sulla società italiana dei due fenomeni è parimenti rilevante, ancorché in modo diverso. Ed entrambi ormai sono ben visibili nella realtà della vita quotidiana del Paese, mostrando sempre più chiaramente il carattere di crocevia migratorio assunto dall’Italia al centro dei processi di internazionalizzazione e segmentazione del mercato del lavoro. I cittadini stranieri residenti in Italia sono ora pari a 5 milioni e 250 mila, una cifra poco lontana dal numero degli italiani residenti all’estero, che sono 5 milioni e 114 mila. Per quel che riguarda aspetti e tendenze è bene precisare qualche punto interessante. Il flusso di immigrati in ingresso è formato da tre componenti. La prima è quella delle persone che entrano o che si registrano per motivi di lavoro (e questa in effetti da diversi anni è andata riducendosi fino a livelli molto bassi). La seconda, molto numerosa, è quella costituita da persone entrate per ricongiungimento familiare. La terza, infine, è rappresentata dai rifugiati e richiedenti asilo, il cui numero è andato aumentando nel corso dell'ultimo quinquennio man mano che si riduceva il numero di coloro che entravano per motivi di lavoro.
Insomma, in Italia – per quel che riguarda il lavoro – abbiamo un flusso di immigrati per lavoro che, stando ai dati ufficiali, si è ridotto durante la crisi e la successiva stagnazione, mentre è proseguito in maniera sistematica il flusso in uscita: quello della nuova emigrazione italiana. Le partenze annuali ormai da qualche anno superano le 150 mila con un dato molto importante: circa un terzo di quelli che partono sono stranieri. Si potrebbe dire “gente che va e gente che viene”. Ma non è la stessa gente.
Passiamo agli aspetti più caratterizzanti la nuova emigrazione e ai paradossi che essa esprime. Cominciando dalle provenienze e dalle destinazioni, ci sono due aspetti da notare: le partenze si indirizzano in larga misura verso un numero molto ristretto di destinazioni, tutte – tranne la Svizzera – interne all’Ue. E questo è ben comprensibile, in quanto effetto del processo di integrazione europea: processo ormai da qualche anno a rischio a causa delle tendenze sovraniste in atto (non solo la Brexit).
Ciò che stupisce riguarda invece le aree di provenienza. Le regioni italiane che danno il maggior contributo all’emigrazione non sono le più povere del Sud, bensì – con la parziale eccezione della Sicilia – quelle più ricche e sviluppate del Centro-Nord, a partire dalla Lombardia e dal Veneto. Questo interessante paradosso è solo apparente e si spiega anche con la più complessa composizione del flusso che parte dal Nord. Ma la spiegazione più importante sta nel fatto che il movimento migratorio dal Sud ha una duplice destinazione: verso le regioni del Nord e verso l’estero. Il primo è assolutamente maggioritario e la sua ripresa ha avuto inizio prima del ritorno dell'emigrazione all'estero.
Il terzo e ultimo paradosso riguarda la composizione del flusso dal punto di vista sociale e del capitale umano. C’è nel flusso in uscita un’assoluta prevalenza della componente giovanile e una notevole componente a elevato livello di scolarizzazione. E questo secondo aspetto ha fatto molto parlare di “fuga dei cervelli” o di brain drain. Il fatto è che si ritiene che i giovani altamente scolarizzati rappresentino la componente maggioritaria, mentre in realtà essi sono poco di un quarto del totale dei nuovi emigranti. Eppure su di loro, “sulla fuga dei cervelli”, si concentra l’attenzione, tralasciando le altre componenti, quelle di origine popolare, destinate alle occupazioni di più basso livello (“le braccia in fuga”). Per queste ultime le condizioni sono più problematiche rispetto all’emigrazione del dopoguerra e le prospettive, relative all’ipotesi di un rientro, ancora più scarse.
Entrando nel merito delle implicazioni di questo flusso migratorio per le aree di partenza, l'aspetto di maggior rilievo è quello demografico. Su questo piano la grande migrazione del dopoguerra ebbe effetti assolutamente positivi, nella misura in cui permise un alleggerimento della pressione demografica, mentre il riequilibrio della struttura demografica veniva garantito dall’elevata natalità. Oggi l’emigrazione aggrava gli squilibri demografici, dando luogo nelle aree interne a veri e propri processi di spopolamento. E che dire del paradosso (l’ennesimo) relativo alle rimesse degli emigranti? All’epoca aumentarono il grado di benessere materiale dei ceti più bassi delle regioni del Sud, oggi questo non si verifica più: al contrario, si registra una direzione in senso inverso delle rimesse: non sono gli emigranti che inviano il loro contributo alle famiglie, ma le famiglie che inviano aiuti ai congiunti emigrati.
In ultimo la questione del lavoro, che è quella più seria. La composizione occupazionale dei protagonisti della grande emigrazione del dopoguerra era contadina e proletaria, la destinazione occupazionale era prevalentemente operaia. Ora le occupazioni sono diverse e molteplici, anche di livello alto per i più scolarizzati. Ma una situazione di precarietà riguarda sia le occupazioni della fascia bassa che quelle della fascia occupazionale alta. Nell’area dei mini jobs e dei lavori precari o privi di protezione sindacale la presenza degli immigrati (italiani compresi) è preponderante in tutta Europa. Anche i benefici del sistema di welfare hanno cominciato a ridursi per i lavoratori stranieri.
Tutto questo richiama alla necessità di una politica riguardante l’emigrazione, innanzitutto incentivando le “non-partenze”. E su questo il punto principale riguarda le politiche economiche per l’occupazione (e non le politiche attive del lavoro tese ad adeguare un’offerta sovrabbondante a una domanda di lavoro che non c’è). Ma c’è anche da sviluppare una politica di difesa e protezione degli emigranti all’estero, rafforzando il lavoro degli uffici consolari in questo ambito, rafforzando e finanziando le strutture di rappresentanza degli emigranti e le loro associazioni e stimolando infine le attività di patronato. Tutto questo passa per la presa di coscienza della rilevanza del fenomeno.
Enrico Pugliese è professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza Università di Roma