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Il 7 settembre 1893 nasceva il Genoa, la più antica squadra di calcio ancora in attività in Italia. Il calcio, una passione che nasce nell’infanzia e ti segue per tutta la vita. Un gioco da ragazzi... Ma ne siamo davvero così sicuri? L’attività calcistica femminile in Italia è un movimento in continua crescita come dimostrato dallo straordinario risultato al recente Mondiale delle Azzurre.
L’11 dicembre scorso, nello stesso giorno in cui per la prima volta nella storia repubblicana una professionista donna - Marta Cartabia - veniva eletta presidente della Corte costituzionale, la Commissione bilancio del Senato, con l’approvazione di un emendamento alla legge di bilancio presentato dai senatori Tommaso Nannicini e Susy Matrisciano, apriva di fatto le porte al professionismo sportivo femminile.
Apriva, diciamo socchiudeva: la Figc aveva promesso il passaggio al professionismo per il 2021/2022, ma la sospensione dello scorso campionato (a differenza del campionato maschile la Figc ha deciso di sospendere il campionato femminile 2019-’20, con scudetto non assegnato e retrocessioni affidate a un algoritmo) e l’atteggiamento generale della Federazione sembrerebbero non far pensare a un lieto fine in tempi brevi. Una strada in salita, anche in questo sport per le donne, una strada lunga e tortuosa, che affonda le sue radici in una storia lontana ma ancora tristemente attuale.
La prima squadra di calcio femminile, il Gfc, Gruppo femminile di calcio, viene fondata in Italia nel 1933. La squadra sopravvivrà meno di un anno, alle donne il regime non consente di lavorare, di votare, di studiare, figuriamoci di giocare... a calcio poi! I giornali dell’epoca usano un tono sprezzante confronti delle ‘tifosine’ - come si diceva allora - milanesi. Ironizzano sull’abbigliamento che indossano in campo, arrivano ad insinuare che la pratica dello sport potrebbe provocare danni all’apparato riproduttivo, consigliando addirittura il direttore del Littoriale alle ragazze milanesi di rivolgersi a un esperto endocrinologo (per il settimanale si tratta in realtà di un autogoal: il professor Nicola Pende dell’Università di Genova, interrogato, escluderà che il calcio possa procurare danni agli organi sessuali della donne e all’estetica del loro corpo).
“Si può essere signorine per bene e da casa e praticare al puro scopo ginnastico lo sport del calcio”, è la risposta delle ragazze. “L’Italia fascista ha bisogno di buone madri, non di virago calciatrici”, la replica dei benpensanti. Leandro Arpinati, il gerarca bolognese dello sport italiano a capo del Coni e della Figc, aveva in un primo momento concesso alle “giovinette” l’autorizzazione di giocare, esclusivamente a porte chiuse. Ma l’11 giugno 1933 il Gruppo Femminile di Calcio gioca la prima e unica partita. La donna calciatrice si addice poco all’immagine che il regime ha della figura femminile angelo del focolare, madre fattrice di uomini coraggiosi da regalare alla patria. La patria si serve facendo atletici figli che giocheranno a calcio, non certo giocando in prima persona! Bisognerà aspettare il 1968 per vedere il primo campionato ufficioso di calcio femminile, il 1986 per avere quello istituito da una Federazione strutturata.
Secondo il rapporto Figc sul calcio, nel 2018 le tesserate erano 25.896, con un incremento dei tesseramenti dell’8,4% rispetto all’anno precedente. Le Under 18 erano 12.908, il 54% del totale. In totale in Italia ci sono 677 società registrate, delle quali 24 per i campionati di serie A e serie B gestiti direttamente dalla Ficg. Le competizioni inferiori, interregionali come serie C e D, sono invece dipendenti dalla Lega dilettanti.
“Di fatto - diceva lo scorso anno la capitana della Juventus e della Nazionale italiana, Sara Gama - oggi in Italia c’è una discriminazione di genere che non permette a nessuna atleta di essere professionista. In Francia alcune società offrono contratti professionisti e altri da amatori, mentre in Italia questa scelta non è possibile. La gente non sa che noi siamo dilettanti in Italia. Non si può continuare così, ma non vogliamo affossare il sistema proprio adesso che iniziamo a divertirci. Però io a 30 anni non ho i contributi, se non quelli che mi sono stati versati quando giocavo in Francia e non ho tutele assicurative. Tutto deve essere sostenibile per il sistema, bisogna quindi sederci a un tavolo e trovare delle soluzioni condivise. Non possiamo riempirci la bocca dicendoci quanto siamo brave e poi non riconoscerci i diritti che ci spettano”. Parole sacrosante sulle quali riflettere, tutti. La strada per noi donne è ancora in salita - e non solo nello sport - ma noi siamo da sempre ottime scalatrici!