PHOTO
Chissà se qualche medico o infermiere si accorgerà del fatto che oggi è Pasqua. “Qui i giorni sono tutti uguali, non distingui più tra la domenica e il lunedì”. A dircelo è Gianfranco, uno dei rianimatori volontari, che il 1° aprile ha lasciato la sua casa e il suo lavoro a Bari e un ospedale che non trattava i casi di Covid, per trasferirsi tre settimane al Santo Spirito di Casale Monferrato, provincia di Alessandria. Prima linea. A sentire il suo racconto, capiamo che nella terapia intensiva del Coronavirus i momenti della settimana perdono qualsiasi connotato. Si confondono in una lunga teoria di fatica, di voci e corpi attutiti dalle armature anti contagio che scavano un solco tra volti e mani del personale sanitario e quei sudari di sofferenza e, spesso, di morte.
Mentre una parte di mondo oggi difende una normalità che gli è scivolata rapidamente tra le dita e mette in tavola l’uovo di Pasqua cercando di far finta di niente. Mentre una parte di mondo parla comprensibilmente del dopo. Mentre una parte di mondo violenta la propria umanità con la statistica e accoglie come un segnale positivo e rassicurante il calo quotidiano nel numero di morti che, da qualche giorno, è sceso di qualche centinaia. C’è questa parte di mondo, chiusa negli ospedali, per cui niente è cambiato. Sono i medici, gli infermieri e i malati, che continuano a lottare per la sopravvivenza e per i quali da metà febbraio a oggi lo scenario resta lo stesso. E non c’è notte e non c’è giorno. Per chi sta male, non c’è fine alla speranza e alla solitudine e alla sofferenza. Per chi lavora non c’è più il conforto del ritorno a casa, annullato dal terrore di portarsi dietro il virus. Non c’è riposo all’orizzonte.
Gianfranco è uno di questi. Avrebbe potuto scamparla, ha scelto di esserci. E oggi vivrà l’unico giorno di sosta. Solo, nella sua abitazione provvisoria, nel silenzio composto e responsabile delle strade deserte di Casale, in questa cittadina funestata dall’amianto, che, per uno scherzo beffardo del destino, da decenni ha a che fare con polmoni pieni di liquido e malati con il respiro sempre più corto. Gianfranco oggi si trova esattamente a metà del periodo di aiuto volontario ai colleghi in grande difficoltà. In settimana lo abbiamo raggiunto al telefono, dopo averci parlato a fine marzo, quando aveva appena fatto domanda e non sapeva quale sarebbe stata la sua destinazione. È tutto intero, ci assicura appena risponde.
Qual è stato l’impatto? “È una malattia veramente strana, dovrei dire bastarda. Una malattia sconosciuta e di difficile gestione. Rispetto ai pazienti standard di rianimazione, questi sono veramente complessi – e non tutti hanno patologie in partenza –, ma nonostante questo il trattamento è veramente molto complicato”. Un pugno in faccia dev’essere stato il suo arrivo. Il primo giorno di lavoro due pazienti sono morti. Quattro le vittime, nei primi cinque giorni. Tra gli intubati anche una coppia di fratelli. La terapia intensiva sempre al completo, da settimane. Tante le persone gravi di 50 anni o poco più. “La situazione è veramente molto pesante. Peggio di quanto mi aspettassi”. Ti sei pentito della scelta? “Assolutamente no. Le condizioni del personale erano allo stremo. Turni durissimi, 12 ore, anche di notte, senza tregua. Quando sono arrivato mi hanno accolto con sollievo e riconoscenza. Molti di loro non facevano un giorno di riposo da tempo. Dal punto di vista umano e professionale questa esperienza mi sta dando tantissimo”.
Tu sei uno di quelli che oggi vediamo tutto bardato nei servizi dei telegiornali? “Sì, indosso anche io la tuta bianca e posso assicurarti che è dura. Devi stare attento a come ti vesti e, ancor di più, a come ti svesti, per evitare il contagio. Perché è altamente probabile che tuta, guanti e visiera vengano a contatto con il virus. Non devi toccarti viso, bocca, occhi, c’è una procedura molto rigida da imparare e seguire”. Come ti senti, lì dentro? “Le ore sono lunghissime, ti devi adattare e si suda tantissimo. Ogni giorno, quando torni a casa, sei distrutto anche fisicamente. E poi non puoi toglierla, o almeno devi cercare il più possibile di evitarlo, perché ogni volta che ti svesti rischi di contagiarti. Quindi cerchi di non bere, di non mangiare e di non andare in bagno. Di resistere almeno le prime 4 o 6 ore”. Il suo turno, ogni giorno, è 8/20. Dodici ore in quelle condizioni, per cercare di alleviare il carico dei colleghi stremati e garantirgli tutto l’aiuto che può prima di tornare a casa il 21 aprile. Hai paura? “Per assurdo ti dico di no. È molto più pericoloso andare in giro, incontrare qualcuno al supermercato che potrebbe essere asintomatico. In ospedale non mi sento in pericolo, anzi, mi sento protetto”.
Buona Pasqua, Gianfranco. E buona Pasqua a tutti quelli che la passeranno in ospedale. Non vi dimenticheremo. E ci auguriamo che chi continua a parlare di fase due e a cercar di capire come uscir fuori da questa terribile situazione, si ricordi quale fosse lo stato del nostro Servizio sanitario nazionale quando il ciclone coronavirus ebbe inizio. Quanti lutti ci sono costati i tagli profondi. Quanti posti di terapia intensiva ci fossero. Quanti dipendenti del settore, e con quali contratti. E di quanti atti di coraggio e altruismo come quello di Gianfranco ci fu bisogno perché la nottata passasse il più in fretta e il meglio possibile.