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“Mia madre è morta l'8 aprile 2020. Aveva 78 anni, da poco compiuti, nessuna patologia pregressa. Per me era un'entità immortale”. Inizia così la memoria di Daniela, la figlia di Maria Felicia Pinto, ricoverata il 29 gennaio 2020 all’ospedale Niguarda di Milano per una grave pancreatite e poi, quando la pandemia da Covid-19 ha travolto la struttura, trasferita all’Istituto Palazzolo Fondazione Don Carlo Gnocchi, dove alcuni giorni fa la guardia di finanza di Milano ha effettuato perquisizioni nell'inchiesta della Procura sulla gestione delle Rsa per le morti di centinaia di anziani nelle residenze, con tre indagati per epidemia e omicidio colposo tra i dirigenti. Di seguito il frammento di testimonianza a partire dal giorno del trasferimento.
18 marzo. “Signora buongiorno, sono la caposala, volevo avvisarla che sua madre sta per essere trasferita all'Istituto Palazzolo. Riesce a venire qui entro le prossime due ore per prepararle la valigia e salutarla?”. Tutto molto veloce. Il Palazzolo, senza alternative. La dottoressa nel darmi copia delle dimissioni. “Le ultime analisi di sua madre andavano abbastanza bene. Lei non ha più motivo di stare in una Chirurgia, necessita di una Medicina che qui, da noi, ora non è purtroppo disponibile”. “Ma in cosa devo sperare adesso? Che mia madre sopravviva al Palazzolo?”. “La capisco... ma non so cosa dire. Siamo tutti in una situazione drammatica”. Mia madre non era neppure stata avvertita. Quando mi aveva vista comparire sulla porta della sua stanza aveva istintivamente sorriso di gioia, poi aveva capito ed era scoppiata a piangere. Al Palazzolo ci accolgono subito dicendoci che il Niguarda non aveva inviato né la cartella clinica, né la cura. “Mamma, non separarti mai dal tuo telefono. Devo sapere tutto di te qui dentro”. Il primario mi diceva che si sarebbero organizzati per fare una videochiamata a settimana. La videochiamata? A me importava solo sapere con certezza che avrei potuto ricevere aggiornamenti medici sull'andamento della pancreatite. La stanza mi faceva salire i brividi. Quel vecchio arredo di legno. Come gestiranno qui dentro la malattia?
19 marzo. “Dio come sto male Daniela, non ce la faccio più. Io però domani mattina chiedo al dottore se sono qui per curarmi o è un deposito e basta, perché non posso andare avanti così, credimi. Comunque non mi stanno facendo niente di niente. Io non vedo nessuno. Non ho nessuna speranza”. I numeri interni dell'Istituto Palazzolo non rispondevano. Silenzio. Ero riuscita a risalire al primario di Medicina, unico referente in carne ed ossa incontrato in quel posto, con la gentile richiesta di mettersi in contatto con me e col nostro medico di famiglia che ha sempre chiesto (e ricevuto) costantemente informazioni cliniche ai dottori del Niguarda, senza abbandonarla mai. Non da eroe. Da medico che crede nel suo lavoro. Ricevere informazioni dovrebbe essere un diritto. Il primario chiamava il medico di famiglia sabato 21 marzo comunicando la sua unica preoccupazione relativa alla possibile positività di mia madre al Coronavirus, era “praticamente certo”. Lui, che sarebbe stato impegnatissimo dopo l'ulteriore incarico ricevuto come primario del nuovo reparto dedicato Covid. Medicina, la Zona Generosa, però, era ancora ufficialmente dichiarata “zona pulita”. In una telefonata il 23 marzo mi veniva richiesta l'autorizzazione a procedere con il tampone. Poi silenzio. Fino al 26 marzo quando mi veniva comunicato l'esito: Negativo al Covid. Dopodiché le uniche notizie arrivavano dalle videochiamate con mia madre. Nessuna riabilitazione motoria. “Sono esausta, prego la morte, sono al limite...”. “Ti prego mamma, continua a pregare la vita, hai ancora tante cose da fare. Ma ti visita qualcuno?”. “Ogni tanto si affaccia un dottore di turno sulla porta e mi fa delle domande”. Domande. Antibiotico. Una puntura nella pancia. Sospensione di alimentazione da sondino. Continuava il silenzio. Nel frattempo mia madre, con la febbre, mi chiedeva di acquistarle tre camicie ospedaliere perché al Palazzolo ne erano sprovvisti. L'avevano “coperta” con una maglia di pigiama da uomo, taglia piccola (di chi sarà stato quel pigiama?) che le arrivava sopra il punto vita, nei giorni in cui aveva la febbre e aveva chiesto di chiudere una finestra aperta che l’aveva costretta in mezzo alla corrente fredda. Fallimentare ogni tentativo telefonico al Palazzolo. Sollecitazioni alla Direzione sanitaria. Il 30 marzo arrivava la prima chiamata di un dottore. Le infermiere avevano riferito a mia madre che le “urine non erano belle, dobbiamo spostarla in una zona pulita”. Non è stata spostata. Non esistevano più “zone pulite” nel Palazzolo.
6 aprile. I messaggi vocali di mia madre erano un continuo “non farcela più”, “chissà come andrà a finire, mi manchi, ti voglio bene. Ora aspetto che mi vengano a girare sull'altro fianco”. Il giovane dottore: “I valori della pancreatite vanno bene, sono negativizzati”. “Davvero? Bene!”. Questo mi tranquillizza. Quindi la febbre... Da giorni episodi di elevata temperatura. Un po' di tosse. Fino ad arrivare, il 6 aprile, a 39,3. Ma se i valori della pancreatite sono negativi... pensavo.
7 aprile. “Aspettiamo nuovi risultati. Vorrei fare a sua madre un nuovo tampone perché i sintomi potrebbero essere sospetti... stamattina ha avuto un abbassamento di ossigenazione nel sangue. A un primo sguardo della schermografia mi sembra di intravedere un piccolo impegno dei polmoni. Signora, parliamoci chiaro, in questo reparto su 40 pazienti, 39 sono positivi al Covid tranne sua madre, unica negativa. E questo inizio a pensare sia impossibile... E se risultasse ancora negativa, sarebbe meglio saperla a casa che qui dentro. “Ho vomitato ancora sangue sto malissimo”. Messaggio scritto di mia madre all'una e mezza di notte. “Il dottore di turno mi ha dato un protettore gastrico. Domani dovranno fare altre analisi, forse portarmi in ospedale...”.
8 aprile. Alle 9 ricevevo la chiamata di una dottoressa che mi riferiva che un'ora prima aveva trovato mia madre in un gravissimo stato emorragico. Aveva vomitato sangue e ne aveva perso dalle feci. “Ma sua madre stanotte ha rifiutato per due volte il ricovero, all'una e mezza e alle sei. Ora proverò a stabilizzarla perché altrimenti è impossibile trasportarla in ambulanza, morirebbe subito”. Siamo corsi all'Istituto. Dovevamo in ogni modo ottenere il trasferimento al Niguarda. Capire cosa stesse succedendo. La dottoressa mi richiama: “Vedrete passare sua madre in ambulanza, diretta al Niguarda, ma perché siete venuti qui? Ho fatto di tutto per convincere il 112 che non voleva venire a prenderla...”. Com'è possibile che ci sia stata una notte a disposizione per “chiedere autorizzazione al ricovero” e non il tempo di evitare quell'emorragia interna? Perché non chiamare me, mentre mi avevano contattata per chiedermi l'autorizzazione per un Tampone di Covid? Dopo circa un'ora il Pronto soccorso del Niguarda ci diceva che mia madre era arrivata gravissima con valore 5,3 di emoglobina. Non era cosciente. La stavano trasportando dagli Endoscopisti mentre moriva, in arresto cardiaco e respiratorio. Morte certa per emorragia interna. Ecco che fine aveva fatto la pancreatite. Il Palazzolo aveva specificato al Niguarda che la paziente aveva rifiutato il ricovero. Non aveva effetti personali con lei.
10 aprile. Dopo due giorni di insistenza chiamando il Palazzolo, arrivava la telefonata della caposala del reparto di Medicina comunicando che avremmo potuto ritirare gli effetti personali di mia madre. Avevamo ribadito quanto fosse importante recuperare innanzitutto il telefono cellulare. All'ingresso, un'addetta della lavanderia ci consegnava due doppi sacchi. “Pinto Maria Felicia / Decesso”. “Controllate bene se c'è tutto e se manca qualcosa”. L'Iphone di mia madre non c'era. Spariti gli accessori. Spariti gli occhiali da vista. Sparito il quaderno nero e la penna con cui voleva esercitarsi a scrivere dopo tanto tempo. Spariti indumenti e altri oggetti personali. La caposala (successivamente dichiaratasi ‘sostituta della caposala’) chiamata a rispondere di tutto questo, rimaneva immobile davanti a me. Ripetendo: “Io volevo sapere a che ora avesse sentito sua madre per l'ultima volta”. Le rispondevo che mia madre l'avevo sentita la stessa notte maledetta, vista in videochiamata alle ore 02:00. Rientrata a cercare il telefono per la pressione esercitata. Tentativi imbarazzanti di mediazione di due impiegate amministrative e della direttrice sanitaria (già indagata). La mia denuncia in Questura sabato 11 aprile. Dall'app del servizio clienti del gestore telefonico, quel telefono è risultato attivo per altre 24 ore. Suonava, la sera del giorno del decesso. Mi richiameranno il 23 aprile per dirmi che la borsa di mamma è stata ritrovata: del telefonino, però, nessuna traccia.
16 aprile. Chiamata alle ore 20 circa della caposala (sostituta caposala ha specificato) che con tono estremamente conciliante rinnovava il dispiacere per la sparizione del telefono altri effetti personali mettendosi a disposizione. Nuovi particolari, nuove contraddizioni. Alle 6 di mattina mi riportava che gli infermieri avevano girato mia madre nel letto, cambiandole le traverse. Precedentemente, alle sei di mattina, mia madre avrebbe invece rifiutato il ricovero, per loro. “Di sicuro il Primario vi chiamerà per darvi informazioni cliniche di sua madre”. Informazioni che sarebbero state utili in vita, non a morte avvenuta. Ho ribadito di non sapere nulla della notte di emergenza, dalle ore 02 in cui ho parlato con mia madre, alle 09 quando ho ricevuto la chiamata della dottoressa di turno. Ad oggi, un mistero. L'emergenza di quella notte. Non gestita? Come e da chi? Domande su come mia madre possa essere arrivata alla mattina dell'8 aprile in quello stato irrecuperabile. Tante domande su una morte forse evitabile.