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Dopo l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944, inizia quella che viene ricordata come la marcia della morte, una scia di sangue e violenza che, attraversando Versilia e Lunigiana giungerà al bolognese e alle pendici del Monte Sole. La strage di Marzabotto (dal maggiore dei comuni colpiti) o più correttamente eccidio di Monte Sole fu un insieme di stragi compiute dalle truppe nazifasciste in Italia tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, nel territorio dei comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno che comprendono le pendici di Monte Sole in provincia di Bologna.
Le vittime
Gli eccidi compiuti durante l’estate-autunno del 1944 causeranno complessivamente la morte accertata di 955 persone: in particolare nella strage del 29 settembre - 5 ottobre 1944 saranno comprovate 775 morti. Lo scopo dei nazisti agli ordini del feldmaresciallo Albert Kesselring era fare terra bruciata attorno alle formazioni partigiane nelle retrovie della linea gotica sterminando le popolazioni che le appoggiavano.
Il 25 settembre 1949 il Presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi conferiva a Marzabotto la Medaglia d’Oro al Valore Militare, per il sacrificio dei suoi abitanti nella lotta di liberazione. Il testo della medaglia indica 1830 caduti, come dato complessivo degli uccisi dai nazifascisti in un territorio più ampio di quello comunale (fra Monte Venere, nel comune di Monzuno e Monte Sole, nel comune di Marzabotto), dall’8 settembre 1943 al 1° novembre 1944.
“Incassata fra le scoscese rupi e le verdi boscaglie dell’antica terra etrusca - si legge nella motivazione - Marzabotto preferì ferro, fuoco e distruzioni piuttosto che cedere all’oppressore. Per quattordici mesi sopportò la dura prepotenza delle orde teutoniche che non riuscirono a debellare la fierezza dei suoi figli arroccati sulle aspre vette di Monte Venere e di Monte Sole sorretti dall’amore e dall’incitamento dei vecchi, delle donne e dei fanciulli. Gli spietati massacri degli inermi giovanetti, delle fiorenti spose e dei genitori cadenti non la domarono ed i suoi 1830 morti riposano sui monti e nelle valli a perenne monito alle future generazioni di quanto possa l’amore per la Patria”.
La testimonianza
“Nelle giornate del 29 e 30 settembre - raccontava Maria Tiviroli, una sopravvissuta - eravamo nel rifugio, sopra alla nostra casa a Steccola. Sono arrivate le SS e ci hanno detto di andare verso Prunaro di Sopra, dove c’erano già le mitragliatrici a tre piedi. Ci hanno detto di camminare in fila lungo la cavedagna e poi ci hanno falciati lì. Eravamo in 16 o 17 tutte donne e bambini, unico uomo il nonno di 82 anni che fu subito buttato in un pagliaio in fiamme. Una bambina di 40 giorni sfollata da Bologna, fu portata via alla madre dalle SS, buttata in alto e sparata come fosse un barattolo. Prima di fuggire nel bosco ho cercato mia sorella Gina di 12 anni e mio cugino Giuseppe di 11 anni. Gina era nel fosso, coperta d’acqua, ho visto solo i capelli, mentre Giuseppe, morto, era a sedere per terra con le mani in tasca. Aveva il vestito della cresima con la piccola croce sul taschino”.
Quando sentiamo parlare di cose buone fatte, ricordiamoci di loro...