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Era caldo quella domenica pomeriggio, il 19 luglio del 1992: il giudice Paolo Borsellino, dopo un pranzo con moglie e figli, stava andando a prendere la madre per accompagnarla dal medico, davanti al civico 21 di via Mariano D’Amelio. Esplose un'autobomba uccidendo il giudice, la donna e gli uomini della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Erano trascorsi poco meno di due mesi dalla strage di Capaci e in quelle settimane Borsellino lottò contro il tempo per cercare prove e mandanti dell’omicidio del suo amico Giovanni Falcone. Era consapevole che il prossimo sarebbe stato lui.
Non fu mai sentito, pur avendolo chiesto, come testimone. Si sentì solo. Mentre cercava la verità, tra Roma e Palermo si intavolavano dialoghi, forse trattative. Poi 30 anni di impegno antimafia che vide alleati forze dell’ordine, magistratura, società civile, esponenti del mondo della politica e l’arresto di boss, da Totò Riina a Matteo Messina Denaro. Molto si è scoperto, troppo ancora non è chiaro. Del passato e del presente. Secondo Emilio Miceli, da poco nominato responsabile legalità per la Cgil nazionale, il rischio di tornare indietro rispetto alle strategie individuate da Falcone e Borsellino c’è tutto. Al di là della volontà, i messaggi che arrivano da Roma sono assai preoccupanti. Dall’annuncio di revisione del reato di concorso esterno alle organizzazioni mafiose, dalla riforma delle intercettazioni fino al nuovo Codice degli appalti.
Siamo al 31° anniversario della strage di Via D’Amelio. Come per quella di Capaci ci sono due manifestazioni e molte polemiche. Cosa sta succedendo?
Il 19 luglio è lo “snodo” della stagione delle stragi: da un lato la strage di Capaci e il tentativo di Borsellino di dare una lettura investigativa, con un forte interessamento anche al tema degli appalti; dall’altro il tentativo di pezzi di apparati dello Stato di tentare la strada della trattativa, “alle spalle” della procura di Palermo e con l’obiettivo di superare “l’avventura stragista” della mafia. Ci trovavamo, insomma, in una situazione delicatissima e contraddittoria: tra l’impulso dei magistrati, a cominciare da Borsellino, a spingere sull'acceleratore delle inchieste aperte e quello di ricostruire un equilibrio e una convivenza tra mafia e Stato. A ben vedere, anche oggi esiste un incrocio di diverse questioni che meritano invece la chiarezza più assoluta.
Andiamo con ordine. Ti riferisci alle celebrazioni di Palermo, peraltro non unitarie, e a ciò di cui si discute a Roma?
Il dibattito aperto dal ministro della Giustizia sul concorso esterno è un messaggio implicito di riscrittura di quel pezzo di storia, di ricostruzione di un nuovo equilibrio tra Stato e mafia all’insegna di un garantismo ruvido. Insomma, il tentativo di riscrivere una parte della storia del Paese. Un messaggio implicito a difesa del sistema politico: cos’è il cosiddetto “concorso esterno in associazione mafiosa” se non lo strumento per indagare, sul piano processuale, quella che Pio La Torre definiva, “la compenetrazione tra potere legale ed extralegale”? E quindi il nesso tra mafia e politica? Per questo, anche aldilà delle reali intenzioni, è un messaggio inquietante. Prendiamo atto del fatto che la presidente del Consiglio ha detto, con sufficiente ritardo, che quella riforma non è all'ordine del giorno. Ma non è sufficiente, è un modo di scansare il problema. Avrebbe dovuto dire quello di Falcone e Borsellino, fu un impianto corretto che permise di svelare una trama di rapporti tra politica e mafia che credo sia stata una delle cose più devastanti della storia di questo Paese.
Di segnali, chiamiamoli contraddittori, in queste settimane ne sono arrivati tanti. Penso alla riforma del Codice degli appalti o al disegno di legge che elimina l'abuso d'ufficio. Sta avanzando una strategia normativa che allenta le maglie nei confronti di quei reati, a cominciare dalla corruzione che sono utilizzati anche dalla criminalità organizzata per entrare nel mondo dell’economia legale.
All’elenco – giusto per precisione – vanno aggiunte le intercettazioni e la riforma del mandato di arresto. Il fatto che si preveda che debbano essere tre i giudici a decidere sull’arresto non è altra cosa rispetto a questo ragionamento. Così come è acquisito il valore delle intercettazioni per costruire relazioni e legami, oltreché dare impulso alla caccia ai latitanti. Insomma, vi è come l’idea che si voglia “allentare” tutti i bulloni dei presidi di legalità per cambiare la natura dei rapporti tra politica e magistratura. Sta prevalendo l’idea che questo Paese soffra non perché esistono fenomeni inquietanti non degni di un Paese civile, ma per la presenza di una legislazione orientata alla difesa della legalità. E questa è la ricetta più vecchia e la più perdente. Quindi inutilità sostanziale delle gare d’appalto e via agli affidamenti diretti; riforma dei passaggi chiave della legislazione in tema di giustizia in un Paese, forse il solo, che vanta almeno tre grandi organizzazioni mafiose di natura e peso globali. Potrei continuare con la politica fiscale, con l’alienazione dei beni confiscati senza alcun ragionamento di merito. La sensazione è che si voglia tornare indietro rispetto al tempo in cui, con l’omicidio di Pio la Torre e quella del generale Dalla Chiesa, si diede una svolta alla politica giudiziaria e una nuova razionalità all’aggressione dei patrimoni illeciti e mafiosi e al delitto di associazione mafiosa.
A voler essere generosi si aprono le porte alla corruzione e alle infiltrazioni. Siamo di fronte a un pericoloso arretramento e, per tornare all’anniversario di oggi, sono convinto della più larga unità nella lotta alla mafia; la lotta alla mafia è un bene in sé, un valore che non ha bisogno di alcun aggettivo per essere compreso. Ma non ho alcun dubbio che se non si colgono in nessi fondamentali delle relazioni tra il sistema politico e la mafia rischiamo di trovarci di nuovo, come quaranta anni fa, di subire l’aggressione o il patto di convivenza tra mafia e politica. Per queste ragioni non mi meraviglia che sia emersa una dialettica così forte da portare a due manifestazioni diverse, sia lo scorso 23 maggio che oggi. Perché c’è in giro un’ansia di rivincita delle forze che in questi anni hanno dovuto subire un’azione antimafia che ha permesso, altro che trattativa, di resistere e sconfiggere l’assalto militare mafioso alla nostra democrazia. Poi c'è anche un problema di buon gusto. Insomma, se hai avuto rapporti con la mafia non ti presentare alla manifestazione antimafia…
Una notizia mi ha colpito proprio in queste ore, ma è stata pubblicata solo su Il Giornale: a Brescia è stato approvato un protocollo tra procura e demanio per vendere a trenta giorni dal sequestro i beni dei mafiosi. Quel quotidiano la saluta come una grande e positiva innovazione. Fu proprio Pio La Torre, invece a sottolineare come i beni confiscati e sequestrati se venduti rischiano di tornare attraverso prestanome ai boss. E poi c’è anche il valore sociale del riuso per la collettività che viene meno. Che segnale è?
Ho una preoccupazione: quando parliamo di beni non stiamo parlando del passato ma del presente. Parliamo della capacità di ramificazione delle organizzazioni mafiose vecchie e nuove, la loro ricerca di spazi di mercato al Nord attraverso l'acquisizione di imprese. Ed è di questo che dovremmo occuparci, di questioni terribilmente aperte che pesano sull’economia sana come una zavorra. Allora la questione non è come vendere i beni dei mafiosi per far cassa, ma come lo Stato, che dispone di un patrimonio ormai grande sottratto alle mafie, riesce a metterlo a frutto, a cominciare dai beni produttivi. Ne parlavamo trent'anni fa, quando questo problema si pose; a maggior ragione, visto che è ancora attuale, serve discuterne oggi. Insomma non possiamo gestire i beni materiali, beni produttivi con amministratori giudiziari, a volte anche abbastanza disinvolti, oppure con una gestione prefettizia. C’è bisogno che lo Stato si doti di una sua agenzia dove si studiano piani industriali per i beni produttivi e si prova a ridisegnare l'azione di quelle imprese. Esiste un patrimonio produttivo ormai molto importante e dobbiamo intervenire con lucidità e lungimiranza. Insomma, una concezione tutta liberista applicata ad aziende investite da misure di prevenzione perché punto di contatto tra l'economia e la criminalità organizzata, credo sia sbagliata e pericolosa.
Penso che il dibattito debba partire da qui: cioè da come nelle aziende che sono patrimonio dello Stato si possano reclutare manager e tecnici, coordinati dal sistema pubblico, per tornare a produrre nella legalità e rispettando le regole del mercato. Insomma, penso occorra fare in modo che le imprese sequestrate diventino pezzi del sistema produttivo pubblico nel nostro Paese.