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Il 12 settembre 1923, da Vienna, Antonio Gramsci propone la fondazione di un giornale in una lettera inviata al Comitato esecutivo del Pcd’I.
Cari compagni, nella sua ultima seduta il Pres. ha deciso che in Italia sia pubblicato un quotidiano operaio redatto dal comitato esecutivo al quale possano dare la loro collaborazione politica i terzinternazionalisti esclusi dal Partito Socialista. Voglio comunicarvi le mie impressioni e le mie opinioni a questo proposito. Credo che sia molto utile e necessario, data la situazione attuale italiana, che il giornale sia compilato in modo da assicurare la sua esistenza legale per il più lungo tempo possibile. Non solo quindi il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito, ma esso dovrà essere redatto in modo che la sua dipendenza di fatto dal nostro partito non appaia troppo chiaramente. Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma ed alla tattica della lotta di classe, che pubblicherà gli atti e le discussioni del nostro partito, come farà possibilmente anche per gli atti e le discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti e dirà il suo giudizio con un tono disinteressato, come se avesse una posizione superiore alla lotta e si ponesse da un punto di vista "scientifico". Capisco che non è troppo facile fissare tutto ciò in un programma scritto; ma l’importanza non è di fissare un programma scritto, è piuttosto nell’assicurare al partito stesso, che nel campo delle sinistre operaie ha storicamente una posizione dominante, una tribuna legale che permetta di giungere alle più larghe masse con continuità e sistematicamente.
Io propongo come titolo L'Unità puro e semplice, che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’Esec. All. sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come un problema di rapporto di classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale. Personalmente io credo che la parola d’ordine "governo operaio e contadino" debba essere adattata in Italia così: "Repubblica federale degli operai e dei contadini". Non so se il momento attuale sia favorevole a ciò, credo però che la situazione che il fascismo va creando e la politica corporativa e protezionistica dei confederali porterà il nostro partito a questa parola d’ordine. A questo proposito sto preparando una relazione per voi che discuterete ed esaminerete.
Se sarà utile, dopo qualche numero, si potrà nel giornale iniziare una polemica con pseudonimi e vedere quali ripercussioni essa avrà nel paese e negli strati di sinistra dei popolari e dei democratici che rappresentano le tendenze reali della classe contadina e hanno sempre avuto nel loro programma la parola d’ordine dell’autonomia locale e del decentramento. Se voi accettate la proposta del titolo L’Unità lascerete il campo libero per la soluzione di questi problemi e il titolo sarà una garanzia contro le degenerazioni autonomistiche e contro i tentativi reazionari di dare interpretazioni tendenziose e poliziesche alle campagne che si potranno fare: io d’altronde credo che il regime dei soviets, con il suo accentramento politico dato dal partito comunista e con la sua decentralizzazione amministrativa e la sua colorizzazione delle forze popolari locali, trovi un’ottima preparazione ideologica nella parola d’ordine: Repubblica federale degli operai e contadini.
Nonostante le intenzioni di Gramsci dal 12 febbraio 1924 - primo giorno di pubblicazione - al 31 ottobre 1926 - giorno in cui esce l’ultimo numero legale - l’Unità subisce ben 146 sequestri nazionali (23 nel 1924, 77 nel 1925, 46 nel 1926). Il giornale ha inoltre due periodi di sospensione: dal 13 al 16 gennaio 1925 e dal 10 al 22 novembre dello stesso anno in conseguenza dell’attentato a Mussolini, opera di Tito Zamboni. La vita legale del quotidiano è appesa a un filo e dopo numerosi arresti, sequestri e irruzioni della polizia, nell’autunno 1926 il governo ne sospenderà ufficialmente le pubblicazioni.
Il 27 agosto 1927, dalla francese sede di Rue d’Austerlitz, uscirà il primo numero dell’edizione clandestina. Dal 1934 al 1939 la diffusione subisce una battuta d’arresto e diventa man mano meno intensa, ma con lo scoppio della guerra e la lotta nazifascista, il giornale prende nuova vita. Con l’arrivo degli alleati, dal 6 giugno 1944 riprende a Roma la pubblicazione ufficiale del giornale che uscirà dalla clandestinità, dopo quasi vent’anni, il 2 gennaio 1945.
La redazione s’insedia a via IV Novembre. Nuovo direttore è il partigiano Velio Spano. Dopo la Liberazione, escono nel 1945 l’edizione genovese, quella milanese e quella torinese (nel 1957 rimarranno solo le redazioni di Roma e di Milano, unificate nel 1962). Nei primi mesi del 1945 i responsabili dell’edizione di Torino del quotidiano sono Ludovico Geymonat e Amedeo Ugolini; tra i collaboratori del quotidiano ci sono Davide Lajolo, Ada Gobetti, Cesare Pavese, Italo Calvino, Elio Vittorini, Aldo Tortorella, Paolo Spriano, Luigi Cavallo, Augusto Monti, Massimo Mila, Raimondo Luraghi, Massimo Rendina, Raf Vallone, Armando Crispino.
“A dirigere l’Unità romana - racconta Pietro Ingrao - c’era in quel momento Velio Spano, sardo, prestigioso dirigente della cospirazione comunista, e caporedattore Renato Mieli, che da giovane aveva cospirato con Curiel, esule e sbarcato a Roma con l’arrivo degli alleati. Ma presto, quasi subito le cose mutarono. Spano (…) fu spostato a lavorare alla sezione Esteri del partito. Divenne direttore Mario Alicata con quella turba di giovani e ragazze, ignari del mestiere, a interrogarsi e a cimentarsi nientemeno che sull’avvenire del mondo come sarebbe stato dopo il crollo di Hitler. C’erano sì in quelle stanze di via IV novembre alcune figure storiche del giornalismo comunista: Felice Platone, Ottavio Pastore. Ogni tanto, compariva a consegnarci un articolo, Ruggiero Grieco, e faceva capannello con noi giovani. (…) Togliatti - imperioso com’era - interveniva solo in parte. Era giudice severo, anche sfottente, ostinato nelle sue manie linguistiche. Quasi ogni mattina arrivava al direttore un suo bigliettino scritto in inchiostro verde: mai di plauso, spesso di osservazioni sullo stile, molto sugli editoriali, a volte indicandoci i modelli del borghese Missiroli o del francese Léon Daudet, che - ci raccontava sogghignando - aveva scritto un editoriale sui tre modi di fare la frittata. (…)”.
Ne l’Unità, scriveva nel febbraio 2018 Pietro Spataro “corre la storia del Novecento: il fascismo e il nazismo, le violenze e l’Olocausto, la clandestinità, la morte di Gramsci, la Resistenza, l’Italia repubblicana, la Russia sovietica, le battaglie degli anni Sessanta, i grandi balzi in avanti degli anni Settanta, il terrorismo, l’arrivo di Enrico Berlinguer e lo strappo da Mosca, la sua morte a Padova, il crollo del muro di Berlino, lo scioglimento del Pci e la nascita dell’Ulivo e poi quella travagliata del Pd. l’Unità ha attraversato tutte queste fasi, nel bene e nel male. È stato un giornale nazionale, uno strumento di battaglia politica, un binocolo attraverso il quale guardare il mondo, un dizionario dei conflitti sociali, un orgoglioso status symbol. ‘E alcuni audaci in tasca l’Unità’, cantava Francesco Guccini in Eskimo per raccontare il coraggio che ci voleva in certi momenti ad andare in giro con quella testata bene in vista nella tasca”.
“L’Unità - raccontava ancora Ingrao - dai lettori veniva conservata. E si poteva leggere all’alba, ancora assonnati, sul seggiolino di un autobus, oppure a tarda sera, tra un boccone e l’altro della cena prima di andare alla riunione di sezione, o anche a letto, sull’orlo del sonno. Oppure mettere da parte, conservare questo o quel numero, che poi non sarebbe stato letto mai, dimenticato tra i fasci di carte di un armadio: questa natura curiosa di un giornale quotidiano, che durava al di là del giorno”.
Un giornale quotidiano che durava al di là del giorno, ma che non sopravviverà. Nel 1998 la società editrice (dal 1994 L’Arca, controllata dal Pds) diventerà una società per azioni (L’Unità editrice multimediale S.p.A.) e nel 2000 sospenderà le pubblicazioni. Grazie alla sottoscrizione di un gruppo di azionisti il giornale tornerà in edicola nell’aprile 2001 edito da Nuova iniziativa editoriale. Dal primo agosto del 2014 sospenderà nuovamente le pubblicazioni, riprese il 30 giugno dell’anno successivo con un nuovo assetto societario de L’Unità Srl. Nel giugno del 2017 per la terza volta, le pubblicazioni saranno sospese e dopo il pignoramento la testata andrà all’asta - poi sospesa - in vendita per 300 mila euro (l’annuncio sarà stato pubblicato sul sito ufficiale dell’Istituto vendite giudiziarie di Roma in mezzo tra un “Lotto unico di bottiglie di vino e birra, attrezzature e arredamento per bar” e una “Lampada infrarossi per essiccare vernici marca Infrarr Technologic star”).
“Chi avrebbe mai immaginato che una testata così bella e importante finisse all’asta? - scriveva Pietro Spataro - Chi avrebbe mai immaginato che quel nome così forte - l’Unità - che per molti è stata un simbolo di lotta e di riscatto, un nome da esibire in faccia ai prepotenti, da difendere dagli attacchi, da far circolare durante la clandestinità sotto il fascismo o da mostrare durante le manifestazioni facesse questa fine? Eppure è accaduto”.
“Ci sono storie che non dovrebbero finire - scriveva l’Assemblea dei redattori e delle redattrici del quotidiano annunciando la fine delle pubblicazioni -, per la storia che hanno raccontato e testimoniato, per quella che hanno cercato di capire, per chi ci ha creduto, per chi ci ha messo passione, professionalità e attaccamento. Questa storia, la nostra, hanno deciso di chiuderla nel modo peggiore, calpestando diritti, calpestando lo stesso nome che porta questa testata, ciò che ha rappresentato e ciò che avrebbe potuto rappresentare. Le storie possono essere scritte in tanti modi. Per noi hanno scelto il peggiore”.
Al peggio non c’è mai fine raccontano i saggi e infatti il 25 maggio 2019 il quotidiano tornerà in edicola per un solo giorno, pubblicando un numero per evitare la decadenza della testata. A mettere la firma sotto quell’ultimo numero sarà Maurizio Belpietro. "Così si calpesta una storia" titolava profeticamente l’ultima edizione del giornale prima della sospensione delle pubblicazioni il 3 giugno 2017. Una storia che però non smetteremo mai di raccontare, con affetto, commozione, nostalgia, rabbia.
“Perché a 92 anni continuo a scrivere un corsivo al giorno? - diceva qualche tempo fa Emanuele Macaluso - E non più sulla carta stampata, ma in uno spazio ritagliatomi su Facebook? In breve posso dire che se non scrivo, se non comunico quello che penso, per me è come morire. Questo stato d’animo dev’essere dovuto al fatto che ho sempre scritto, dai primi articoli del 1942 sulla stampa clandestina del Pci in cui descrivevo la condizione dei minatori che lavoravano nelle miniere della Montecatini fino a scrivere corsivi sulla pagina siciliana dell’Unità che Giorgio Frasca Polara firmava Em.Ma. Da allora il giornalismo è stata la mia attività prevalente. Non fu un caso che nel 1982 Berlinguer e tutta la direzione del partito mi chiesero, in un momento difficile del giornale, di dirigere l’Unità”.
"Se non scrivo muoio", e noi continueremo a scriverne perché l’Unità non muoia mai.