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Il 7 giugno 1984, dopo un comizio elettorale a Padova, Enrico Berlinguer viene colto da un malore. Morirà l’11 giugno, dopo quattro giorni di coma, a 62 anni.
“Quando mi dissero che era morto, scoppiai in un pianto convulso - raccontava qualche anno fa Alberto Menichelli, autista storico del segretario, guardia del corpo e amico - Mi tornò in mente la nostra vita insieme: quando arrivavo a casa sua a portargli i giornali alle sette e mezza e lui mi apriva in pigiama; la volta che in treno ci accorgemmo che aveva una scarpa diversa dall’altra; quando lo vidi seduto per terra nel salotto tra un mucchio di libri (“ma che ci fai lì?”; “sta' zitto, ho nascosto 50 mila lire dentro un romanzo e non ricordo quale”); la volta che si mise a giocare a pallone sul piazzale della Farnesina con il figlio Marco e i suoi amici, si fermò una Fiat 130, si abbassò il finestrino: era Moro, che rimase incuriosito a guardare Berlinguer battere un calcio d’angolo”.
Perché in fondo Enrico era questo: rigore e umanità, compostezza ed empatia. “Una persona perbene”, nella definizione di chiunque lo abbia conosciuto. “Enrico Berlinguer parlava poco, ma è stato uno dei pochi politici che abbia mai conosciuto che manteneva le promesse. Una piccola cosa, ma che in politica è grande come una montagna”, diceva di lui Enzo Biagi.
“Berlinguer era un uomo che sosteneva con forza l’idea dell’etica nella politica - ricordava pochi giorni dopo la sua morte Luciano Lama - Ci credeva davvero. Ci sono quelli che non vogliono proprio sentire parlare di etica, anzi stabiliscono due categorie diverse: uno è il campo della morale, l’altro il campo della politica. Quindi politica come carriera, come successo, come potere, forse anche come corruzione. Poi la morale. Bene: questa scissione lui proprio non l’accettava, era il rovescio esatto della concezione che aveva dell’integrità. Certo, capita spesso che chi ha questa concezione della vita politica viene definito integralista, moralista. Lo è veramente se pretende di fare agli altri la lezione che magari non applica alla propria persona. Del resto il rispetto è sincero anche da parte dei ladri. Non è vero che i ladri disprezzano gli onesti, non è vero che i corrotti disprezzano gli integerrimi. Alla base di questo sentimento di solidarietà, di dolore sincero, c’è un sentimento profondo che riguarda un uomo che aveva una diversità: quella di essere pulito, quella di mettere gli interessi personali al di sotto di quello che lui considerava il bene del Paese”.
Un Paese che il giorno dei funerali scende in piazza compatto e commosso per dire addio non a Berlinguer ma ad Enrico. Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, fa trasportare la sua salma sull’aereo presidenziale dichiarando: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”. Al funerale, a Roma il 13 giugno, partecipa circa un milione e mezzo di persone. Il corteo con la bara sfila dalla sede del Pci, in via delle Botteghe Oscure, a Piazza San Giovanni. Un lamento collettivo risuona in continuazione: “Enrico, Enrico”.
Scriveva Lietta Tornabuoni:
Nel chiaro leggero dell’aria serale nel vento fresco che muove migliaia di bandiere rosse in piazza San Giovanni, Pertini pallido e sfinito si piega a baciare la bara di Berlinguer. La gente lo chiama, lo applaude per tanto tempo, e l’onda del battimani è più forte delle note solenni della musica d’addio. Un milione e mezzo di persone, magari di più, impossibile contarle. Il segretario comunista ha avuto dopo la morte il suo comizio più grande, l’emozione più profonda e il consenso più vasto di tutta la vita. Una folla sterminata, addensata nella piazza ma unita anche nei cortei e altrove per l’intera città, venuta da tutta Italia: bandiere rosse, pugni chiusi levati, fiori rossi, striscioni, canti alti o sommessi. Grida: “Enrico, Enrico”. Fazzoletti rossi. Cartelli. Uno dice: “La grande forza dell’uomo è il pensiero. Tu hai saputo pensare. Grazie, Enrico”; altri ripetono con affettuosità familiare “Ciao, Enrico”; “Addio” è l’unica grande parola stampata in rosso su quella prima pagina dell’Unità che molti portano spiegata in mano o sul petto, come un emblema di lutto o un modo di espressione. Una immensa manifestazione di forza, disciplina e serietà: ma anche di una malinconia triste, solitaria e finale. Partita dalla sede del partito comunista in via delle Botteghe Oscure, la bara nel furgone dalle pareti dr cristallo, preceduta dalla musica, seguita dai familiari e dai compagni, soffocata di fiori, passa a fatica tra fitte pareti di gente commossa, e dal brutto palazzo rosso percorre uno scenario unico al mondo: il Campidoglio michelangiolesco e i Fori imperiali, le torri medievali e le colonne dei templi pagani e cristiani di Roma. Un corteo lunghissimo ma puntuale: è l’ora fissata anche dalla televisione le quattro e mezzo, quando arriva in piazza San Giovanni. Una piazza speciale: tra le più vaste della città, distesa in pendenza davanti alla basilica, limitata al fondo dalle antiche mura, da quarant’anni è la casa e il palcoscenico dell’emozione comunista, di vittorie, speranze e dolori del partito.
“Un popolo intero trattiene il respiro e fissa la bara, sotto al palco e alla fotografia. La città sembra un mare di rosse bandiere e di fiori e di lacrime e di addii - cantano i Modena City Ramblers - gli amici e i compagni lo piangono, i nemici gli rendono onore, Pertini siede impietrito e qualcosa è morto anche in lui”.
Dal palco parlano, tra gli altri, Giancarlo Pajetta e Nilde Iotti. A rendere omaggio alla salma va anche il nemico per eccellenza, Giorgio Almirante. “Sono venuto a rendere omaggio ad una persona onesta che credeva nei suoi ideali”, dirà. Da Gorbaciov a Zhao Ziyang, da Marchais a Carrillo, ad Arafat, dai comunisti delle Filippine e di Israele, della Jugoslavia e della Corea, Berlinguer riceve l’attestato di leader internazionale.
“Chiuso in una cassa di legno chiaro, coperta dal drappo rosso e dal tricolore, Berlinguer è tornato a casa, in questa dolce sera romana, accolto dai suoi compagni che lo applaudono come per abbracciarlo e, a squarciagola, scandiscono il suo nome”, scriverà la Repubblica. “Se asciughiamo una lacrima - dirà Pajetta - è per veder chiaro. Ricordate le sue ultime parole: lavorate. Compagno Berlinguer sappiamo come vuoi essere ricordato, ce lo hai gridato a Padova, con un ultimo sforzo”.