Quando nel 1986 Luciano Lama lascia la carica di segretario generale della Cgil, io ero poco più di un bambino. Mio padre era un metalmeccanico comunista, e tra i numi tutelari rigorosamente laici rispettati in casa, vi era senz’altro anche lui, assieme a Enrico Berlinguer, il carismatico leader di un partito che non c’è più. Erano tempi in cui, anche il più umile degli operai respirava l’orgoglio e il senso di appartenenza a una comunità che, in un modo o nell’altro, faceva la Storia. In questa cornice, la connessione sentimentale tra il popolo e i suoi leader era ancora intatta.
Erano i leader, con il loro estro, la loro tempra, i loro umori, a indirizzare le masse, a intuire nuove strade, e quando erano proprio bravi, ad anticipare gli avvenimenti. Il leader vede quello che l’uomo della strada non coglie. Dallo loro parte, i grandi capi del dopoguerra avevano quasi sempre una storia personale totalmente sacrificata sull’altare dell’interesse collettivo. Fatta di persecuzioni, confino, carcere, sconfitte, vittorie, vissute con la coraggiosa e un po’ spavalda coerenza di chi sa che può perdere tutto in una mano sola, e non per questo arretra. Era in fondo ciò che li rendeva credibili.
Lama era uno di questi. Con una passione civile e morale esemplare, aveva attraversato da protagonista momenti epici della nostra storia: la Resistenza, che aveva vissuto in prima persona, catapultato come tanti ragazzi della sua generazione nella guerra civile che insanguinava il paese dopo l’armistizio; la conquista faticosa della democrazia; la ritrovata unità sindacale degli anni Sessanta; il terrorismo e le stragi che insanguinarono l’Italia.
La lezione ancora attuale è in quell’idea di unità della classe lavoratrice, come presupposto necessario per rendere più giusta e democratica la società. La difesa senza riserve della democrazia come principio e come metodo. Un riformismo radicato nella realtà, con al centro il lavoro. Il coraggio di guardare dritto negli occhi il futuro, anche se lontano da quello accarezzato nei nostri ideali. Queste sono le ragioni teoriche che ci hanno spinto a immaginare un podcast sulla vita di Luciano Lama.
Riteniamo che Lama possa ancora parlare a questo presente, disgregato e senza ideali, dove tanta parte del mondo del lavoro è sofferente e ridotto a pura merce di scambio. Proprio ora, per uscire dal guado servono ideali che abbiano gambe ben piantate per terra. E poi ci sono le ragioni sentimentali. Dopo tutto Lama era uno di quei capi a cui credeva mio padre: quella era una storia personale, familiare che confluiva in una più grande, collettiva. Mio padre aveva una storia comune, condivisa dalla sua generazione... cantava Francesco De Gregori.
Credits
Il podcast è ideato e realizzato da Antonio Fico e Giorgio Sammito
voce narrante/ricerca storica: Antonio Fico
montaggio/inserti sonori: Giorgio Sammito
prodotto da LiberEtà Edizioni srl
Si ringraziano l’Archivio della Cgil, l’Archivio Rai, l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (Aamod), la redazione di LiberEtà, e tutti quelli che hanno sostenuto in un modo o nell’altro questo lavoro.