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Qualche anno fa Antonio Lippa, storico autista di Luciano Lama, al suo fianco anche in quel 17 febbraio 1977 passato alla storia come il giorno della cacciata del leader della Cgil dall'università, raccontava: “Come ogni giorno. lo andai a prendere alle 7 e 30 nella sua casa alla Balduina. Era tranquillo, pur consapevole dei rischi che quel comizio comportava. Quando arrivammo lì c’era già molta gente, Lama fu fatto salire sul Doge, il camion che fungeva da palco, io mi piazzai alle sue spalle”.
Alle 8.00 del mattino, Luciano Lama entra nella città universitaria a piedi, seguito dal servizio d’ordine e da militanti della Camera del lavoro e della Federazione comunista della capitale. Spicca fra tutte una scritta a caratteri cubitali accanto ai cancelli principali dell’ateneo: "I Lama stanno nel Tibet". Su una scala è stato piazzato un fantoccio a grandezza naturale in polistirolo circondato da palloncini con appesi tanti grandi cuori con su scritto: "L’ama o non Lama". "Non Lama nessuno" e altri giochi di parole del genere.
Assiepati intorno alla facoltà di Lettere gli indiani ballano, cantano (“Siam tre piccoli porcellin, Cgil, Cisl e Uil, mai nessun ci dividerà… tralalala” o anche “Fatti una pera, Luciano fatti una pera”), scandiscono slogan polemici ripetendo ossessivamente: «Sa-cri-fi-ci-sa-cri-fi-ci».
Alle 10 in punto inizia il comizio (GUARDA IL VIDEO). Luciano Lama dirà dal palco:
Compagne e compagni, lavoratori e studenti, io credo che il modo migliore per utilizzare questa occasione sia quello di ragionare e ascoltare con calma. Questa grande manifestazione di lavoratori e studenti può forse essere un poco disturbata, non può essere impedita. Io voglio dire compagne e compagni che questa mattina ero venuto qui francamente curioso di vedere quello che un giornale, il solito Corriere della Sera, ci preparava. Parlava di carri armati che sarebbero entrati all’Università di Roma; francamente carri armati non ne ho veduti. Ho visto migliaia di lavoratori, di lavoratrici, di studenti riuniti qui per discutere di un problema vitale, non solo della gioventù italiana, ma dell’intera società del nostro paese, ed è di questo che dobbiamo parlare qui oggi perché questi sono i problemi reali che assillano insieme i giovani e gli adulti in Italia. Quale domani prepara questa scuola a voi compagni studenti e ai lavoratori? E’ questa la domanda che noi ci dobbiamo porre, e a questa domanda deve rispondere non solo questa nostra manifestazione, ma l’impegno del mondo studentesco e culturale del nostro paese e l’impegno di lotta delle grandi masse dei lavoratori italiani. (…) Noi non pensiamo di poter agire senza di voi e tanto meno pensiamo di poter agire contro di voi. Vedete, noi abbiamo partecipato quando c’erano i tedeschi e i fascisti alla lotta clandestina e noi italiani abbiamo difeso le macchine e le fabbriche del nord. Sono le solite parole, dice qualcuno. No! Sono parole e fatti nei quali decine e decine di uomini hanno perduto la vita. Questa è la verità. (…) Qualcuno ci accusa di voler normalizzare. Normalizzare che cosa? Noi vogliamo cambiare, trasformare, rinnovare l’Università e il paese, altro che normalizzare. (…) Dobbiamo, con la forza della democrazia e col consenso, contro i fascisti e contro la violenza, perché noi siamo dalla parte del giusto e della legge, conquistare il rinnovamento nell’università e nella società. Io voglio concludere a questo punto con un appello alle forze intellettuali e culturali perché si impegnino in questa grande impresa di rinnovamento che non è certo impresa al servizio del potere, ma è una impresa al servizio della causa nobile e grande dei lavoratori per il cambiamento della società italiana. (…) Guardate amici e compagni, se voi disperderete le vostre forze e il vostro impegno in un atteggiamento che è di rifiuto di una politica reale di rinnovamento, le forze del lavoro, le forze del progresso non si arresterebbero. Noi avremmo certo più difficoltà, maggiori ostacoli a superare ma la nostra volontà non sarà piegata da alcuna resistenza. Guardate che soltanto con l’aiuto, con il sostegno, con la partecipazione dei lavoratori voi riuscirete a ottenere il successo se ciò che vi sta a cuore è davvero l’avvenire del nostro Paese.
Forse il discorso è finito, forse no, ma continuare non è più possibile. Alle 10 e 30 Bruno Vettraino, segretario della Camera del lavoro di Roma che avrebbe garantito a Lama l’assenza di pericoli e contro il quale molte dita saranno puntate, dichiara sciolta la manifestazione e il segretario generale della Cgil viene portato via dall’Università. Il palco è capovolto e demolito, il bilancio, parziale, sarà di un centinaio di feriti, medicati in facoltà, al Policlinico, nei locali della Federazione romana del Pci di via dei Frentani.
“Basta, basta, non ci si picchia fra compagni”, afferma qualcuno, piangendo. Proprio riferendosi a quell'evento Fabrizio De André canterà: "Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn, Capelli corti generale ci parlò all’università, dei fratelli “tute blu” che seppellirono le asce. Ma non fumammo con lui, non era venuto in pace".
“Ci sarei andato lo stesso - dirà anni dopo Lama - era necessario far scoppiare il bubbone, bisognava che si capisse dove stava il pericolo e di che cosa si trattava. E infatti milioni di persone cominciarono a capire (…) Ero lì per fare un discorso e collegare i lavoratori e gli studenti che protestavano non si capiva bene contro chi, almeno i più aggressivi”.
Lama tornerà a La Sapienza esattamente tre anni dopo, nel febbraio 1980, come oratore della manifestazione organizzata in memoria dell’appena scomparso Vittorio Bachelet, ucciso dalle Brigate Rosse. Con lui sul palco ci saranno l’allora segretario della Cisl Pierre Carniti, il giudice Marco Ramat, cofondatore di Magistratura democratica, Antonio Ruberti e Luigi Petroselli, all’epoca rispettivamente rettore de La Sapienza e sindaco di Roma. “Spero che questa volta ci sia una prova di unità tra lavoratori, insegnanti e studenti. In questo palazzo c’è un uomo morto, appartiene anche lui alla nostra famiglia, alla famiglia di coloro che non accettano la violenza. Che si battono per la vita contro la morte”, dirà il segretario generale della Cgil questa volta applaudito.