No, la legge già non è più uguale per tutti. E lo sarà sempre meno se dovessero andare in porto le cosiddette riforme che Meloni Salvini e Tajani, in uno scambio perverso e privato tra partiti, hanno presentato. Questo l’esito del confronto che si è tenuto a Bologna in occasione della giornata conclusiva della Summer School della legalità, e del conferimento del premio intitolato a Pio La Torre.

Quella di quest’anno è la sesta edizione della Summer organizzata dall’Università di Bologna e dalla Cgil; così come è la sesta edizione del premio intitolato al dirigente sindacale e politico ucciso dalla mafia il 30 aprile del 1982 la cui assegnazione – non a caso - è calendarizzata proprio il 13 settembre. Quella fu la data in cui, a poche settimane dall’assassinio del suo ideatore, venne promulgata la Legge Rognoni La Torre, vero e proprio spartiacque nella legislazione antimafia.

L’ha ricordato la professoressa Stefania Pellegrini, ideatrice e direttrice della Summer School oltre che docente della Università Alma Mater. C’è un prima e un dopo quella legge, che introdusse nella normativa italiana il reato di associazione mafiosa e consentì le indagini sui patrimoni finanziare della criminalità organizzata. Sono queste le norme che hanno consentito a Falcone e Borsellino di istruire il maxi-processo di Palermo e dare un colpo quasi mortale a Cosa Nostra.

Uno spartiacque che arriva da lontano. A ricordarlo è stato Franco La Torre, secondogenito di Pio che ha fatto dell’impegno antimafia una delle ragioni del suo operare. “Mio padre arriva alla formulazione di quella legge come conseguenza del suo impegno sindacale e politico,sempre dalla parte dei più poveri, e per difenderli si trovò contro il sistema di potere politico-mafioso. Sistema di potere che Pio La Torre descrisse nel 1976 nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia”. In quel testo che Rosy Bindi presidente dell’Antimafia decenni dopo, tolse dagli archivi e fece approvare all’unanimità, vi è la descrizione del legame perverso tra mafia, politica e imprenditoria che ha minato e mina ancora il sistema economico del Paese.

Per Franco La Torre la legge del 13 settembre del 1982 trae origine da quella Relazione, e allora conclude: “La lotta contro la mafia fa parte della più generale battaglia per i diritti e oggi i diritti negati o sotto attacco sono davvero molti: il diritto al lavoro, all’informazione, ad essere informati, alla salute all’istruzione e potremmo continuare. La battaglia contro la mafia è indispensabile alla lotta è lotta per la democrazia”.

“La lotta antimafia nasce come battaglia per l’affermazione dei diritti dei braccianti”, chiosa la professoressa Pellegrini. Il cuore della Relazione di minoranza è che la mafia è questione di classi dirigenti. Anche oggi i diritti dei lavoratori vengono calpestati spesso ponendoli in un regime di regime di schiavitù. A distanza di più di 40 anni stiamo ancora parlando di questo e di classi dirigenti, di sistema produttivo e di meccanismi da scardinare”.

Gli amministratori locali sono classe dirigente, a ricordarlo nei loro interventi il sindaco di Bologna Matteo Lepore e il presidente di Avviso Pubblico, che insieme alla Cgil e alla Fnsi ha ideato e promuove il Premio, Roberto Montà. Il primo cittadino del capoluogo emiliano romagnolo ha affermato: “Da sindaco ho scoperto quanto le mafie sono infiltrate e radicate nel nostro territorio, soprattutto nei piccoli comuni. Inquina non soltanto le imprese e l’economia, ma la nostra democrazia. Una democrazia più debole ci consegna un Paese e un territorio ancora più debole”. La conclusione del suo ragionamento è netta: “Abbiamo una cultura della solidarietà che ci fa scendere in campo, prendere parte. Dobbiamo farlo non solo come amministratori ma come imprese, come cittadini e cittadine. Dobbiamo tutti insieme dire no a chi vuole portare nel nostro territorio un modo diverso e malato di fare economia. Insieme dobbiamo costruire istituzioni più forti. E la cultura della solidarietà, della legalità e della lotta alle mafie da portare ovunque, a cominciare dalle scuole”.

Roberto Montà, in prima linea con Avviso Pubblico nel tastare il polso alle infiltrazioni degli enti locali e al clima del Paese lancia un allarme che va ascoltato: “Siamo in presenza di una imbarazzante fuga dalla legalità, le norme danno fastidio. Viviamo in un tempo in cui le mafie non sono più considerate un problema, questo è una gravissima minaccia per la nostra democrazia. La relazione tra mafia e politica fondata sul consenso è presentissima e la dimensione della relazione tra mafia e politica, soprattutto a livello locale, è molto forte”.

Parole che non hanno ancoraggio con la realtà, potrebbero affermare quanti sostengono che quello di Montà sia un grido esagerato. Invece sono i numeri che il presidente fornisce a dirci che dobbiamo essere davvero molto preoccupati: “150 mila operazioni sospette per 100 miliardi. Sono servizi ai cittadini e alle cittadine che vengono meno, e diritti e uguaglianza che perdiamo. Fare l’amministratore oggi è pericoloso, nei primi sei mesi + 20% di atti intimidatori nei confronti degli amministratori. Onorare Pio La Torre significa che ora tocca a noi: ad esempio affermando con forza che la normativa sui beni confiscati non si tocca”.

A mettere i piedi nel piatto e raccogliere le sollecitazioni degli amministratori ci ha pensato Alessio Festi, responsabile Legalità della Cgil: “Il modo migliore per onorare il pensiero di La Torre è battersi per sconfiggere precarietà e sfruttamento del lavoro. Cambiare un sistema economico fondato sul mero profitto e che considera il lavoro come mera merce. È questo sistema che ha portato alla uccisione di Satman, il bracciante morto in provincia di Latina a giugno. Grande clamore allora, riflettori spenti quasi subito. No, la legge non è uguale per tutti. Caporalato e sfruttamento, nonostante esistano norme per contrastarlo, sono il segno di un sistema malato che mercifica i deboli e tutela i forti”.

“Con provvedimenti del governo la legge non è più e non sarà più uguale per tutti – ha aggiunto -. Norme cattive con i deboli e immunità ai potenti. Riforma costituzionale della giustizia non ha nulla a che vedere con il buon funzionamento della giustizia, serve a dare un segnale chiaro – come avveniva durante il fascismo –, si cerca di orientare la magistratura, di orientarne il comportamento. Noi siamo e saremo al fianco dei magistrati in questa battaglia per la separazione dei poteri, per la democrazia”.

È stata molto citata Rosy Bindi, presidente premio Pio La Torre che ricorda il dirigente siciliano con tre sottolineature: “La Torre è stato sindacalista, ha dedicato la sua vita alla dignità del lavoro e ai diritti dei lavoratori, da questa prospettiva ha indagato e conosciuto il fenomeno mafioso. La Torre è stato anche un grande combattente per la pace, ha senso ricordarlo anche così. L’attualità del suo messaggio è oggi la richiesta a tutti noi a confrontarci con il problema della guerra, che vede una assuefazione delle nostre coscienze e non trova guida politica in Italia, in Europa e nel mondo capace di compiere quei passi che dovrebbero portarci a bandire la guerra. Se non fermeremo la guerra, la guerra fermerà l’umanità. Infine Pio La Torre è stato l’impegno straordinario lotta alla mafia per il quale ha dato la vita. Oggi dobbiamo interrogarci sul senso della legalità. Ciascuno di noi deve farlo, imprenditori professionisti, tutti coloro che hanno possibili relazioni con il mondo della mafia”.

“La grande tentazione di chi ci governa – aggiunge la presidente - è cambiare le norme sulla prevenzione e sulla confisca dei beni dei mafiosi, quella è una delle misure più temute dalle mafie. Se la complicità è oggi l’arma migliore della mafia, la debolezza sui reati di corruzione, è l’evidenza che non si vuole combattere la mafia”. Bindi non poteva che concludere il suo ragionamento allargano lo sguardo e parlando delle riforme della Costituzione. Non teme di affermare: “È fondata uno scambio autonomia premierato magistratura. Dobbiamo far saltare questo scambio. Al modello di democrazia a cui siamo affezionati, quello della Costituzione antifascista, sono legati i nostri diritti. L’ Autonomia rompe unità sostanziale della Repubblica, il premierato ci toglie un presidio libertà e diritti, attacco autonomia della magistratura è un modo con il quale veniamo privati diritti fondamentali”.

No, la legge non è uguale per tutti e lo sarà sempre meno se le leggi bavaglio si affermeranno. Lo ricorda la segretaria generale della Fnsi Alessandra Costante: “I diritti non sono uguali per tutti e lo saranno sempre meno. L’articolo 21 non tutela i giornalisti tutela i cittadini nel diritto di essere informati di ciò che avviene. Serve un giornalismo professionale, ma per i giornalisti non c’è art. 1 ne art. 36 della Carta. Siamo diventati categoria di precari, di lavoratori con pochi diritti e molti doveri, sfruttati. Lotta al precariato, lotta per i diritti che devono esistere anche nelle redazioni. Dal pacchetto Treu al Jobs Act sono state bruciate milioni di vite, competenze, sogni. Il nostro più grande bavaglio è il precariato dilagante, se non si ha reddito come si fa a raccontare la lotta alla mafia?”.

Non poteva che essere il presidente dell’Associazione nazionale dei Magistrati ad illustrare perché la legge non più uguale per tutti e tutti. Giuseppe Santalucia innanzitutto ricorda come le misure di prevenzione, quelle che questo governo vuole abolire, “hanno creato una giurisprudenza in grado di affrontare bene i reati di mafia, ha fatto scuola in Europa”. Ma il magistrato non si sottrae alla disamina degli ultimi provvedimenti dell’esecutivo sostenendo: “Non sia può fare lotta senza quartiere alla mafia senza fare altrettanto contro la corruzione. Sui reati contro la pubblica amministrazione non si può abbassare la guardia”.

Purtroppo – aggiungiamo – è già stato fatto dall’eliminazione del reato di abuso di ufficio “è la prevaricazione del potere”, l’intervento sul traffico di influenze o la limitazione delle intercettazioni. Per Santalucia: “Sono strumenti di lotta alla mafia, non si può pensare ai tetti di spesa, significa indirettamente interferire con le scelte dei pm”. Molti gli esempi illustrati dal magistrato per dimostrare come sia stato approntato un doppio diritto penale, arcigno e cattivo con i fragili e buono quasi auto-assolutorio con i potenti. Ma c’è una frase pronunciata dal presidente dell’Anm che tende il filo che lega il suo ragionamento a quello degli altri interlocutori: “La mafia è mortificazione dei diritti e allora non la si combatte se non si recuperano i diritti, anche quelli dei detenuti”.

Infine la riforma costituzionale sulla magistratura. A sentir parlare Santalucia sembra di ascoltare i dirigenti sindacali della Cgil: avremmo voluto confrontarci sui testi ma una vera interlocuzione non è mai stata possibile. “Non possiamo accettare – afferma - che la presunzione di innocenza venga assolutizzata fino a costruire uno schermo su ciò che avviene nel processo; si formano delle barriere di segreto ma in una democrazia non si può fare questo uso del segreto processuale. Non c’è un diritto alla carriera politica inviolabile dalla magistratura. Non siamo contrari al primato della politica, assolutamente, ma non significa impunità rispetto alla legge. Il nostro dissenso più forte è sul piano delle riforme costituzionali che non si giustifica in nessun modo. Siamo contrari separazione non per fatto corporativo, ma perché in un sistema che fondato sulla tripartizione dei poteri dello Stato. Se togliamo il pm dove lo mettiamo? Gli diamo addirittura sui Csm senza dargli collocazione. La magistratura non vuole un pm così forte e squilibrato. Vogliamo che la giurisdizione resti autonoma e indipendente e non c’è ragione di rompere questo equilibrio. Questa esasperata ricerca separazione a un tratto sparisce nell’Alta corte dove vengono rimessi tutti insieme ma minoritari rispetto alla componete politica, nel luogo dell’autodisciplina i magistrati diventano minoritari. Ecco dove si esplicita l’attacco all’autonomia della magistratura. Quell’assetto del pm, ingigantito, sarebbe costituzionalmente intollerabile e per questo finirebbe sotto la politica”.

La chiusura della discussione è stata affidata al segretario generale della Cgil Maurizio Landini. Ha ricordato che la lotta alla mafia è l’affermazione di una “società con valori della Costituzione e ha bisogno di un impegno costante di tutti. Per sconfiggere le mafie occorre muoversi in due direzioni: affermare i diritti delle persone a partire da quello al lavoro, e affermare una cultura e un modo di vivere e di partecipare fondato su etica e valori”. Il valore da affermare su tutti: “La libertà di esistere delle persone. Una persona per essere libera non dev'essere precaria, deve avere uno stipendio che le permette di vivere con dignità, non deve morire sul lavoro, il diritto alla salute pubblica e alla cura deve avere garantito”. All’elenco degli attacchi alla democrazia il segretario aggiunge il tentativo di limitare il diritto di sciopero: “Senza questo dritto non c’è democrazia, è il diritto di ogni singola persona non del sindacato”. Ciò che va cambiato è il modello di fare impresa, quello fondato sullo sfruttamento, che uccide come a Latina o nel cantiere dell’Esselunga. E vanno, quindi cambiate le politiche migratorie a cominciare dall’abolizione della Bossi-Fini.

Non si sottrae Landini al tema del giorno e parla di giustizia: “Affermare il valore del lavoro come elemento fondamentale della democrazia è indispensabile per costruire una diversa cultura politica. L’estrema destra prende voti dove il disagio è più grande, se si vuole contrastare la destra bisogna porsi il problema di cambiare provvedimenti di altri governi, che hanno favorito questa regressione perché la crisi della democrazia favorisce logica autoritaria”. E aggiunge: “Contrastiamo lo scambio sulle riforme costituzionali nell’unico modo possibile, occorre praticare la democrazia tornando a parlare e ad ascoltare le persone”.

La Cgil ha scelto di utilizzare tutti gli strumenti a propria disposizione, innanzitutto la contrattazione, ma non solo. Dice il leader sindacale: “Di fronte a tutto questo scelto usare anche strumento referendum, perché pensiamo che serva ridare senso anche al voto. Voto per eleggere serve a delegare a rappresentarmi. Voto al referendum è il singolo cittadino che con un sì o no decide rispetto al cambiamento di una legge. Senza deleghe. La battaglia per costruire cultura della legalità è elemento fondamentale per la democrazia. C’è bisogno di militanza senza precedenti. Chi ha votato la destra non è maggioranza nel paese. Serve un impegno straordinario di tutti per cambiare il nostro Paese, perché non solo abbiamo ragione ma possiamo portare a casa il risultato”.

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