“Mio figlio è morto per soldi. Lo hanno ammazzato per risparmiare. È morto perché era un ragazzo serio, aveva trovato quel lavoro e anche se non gli piaceva se lo era tenuto, pur di non stare a casa a far niente. Si era accontentato, lui diceva momentaneamente. Poi era rimasto perché pensava che l’azienda avrebbe chiuso, lui sperava che chiudessero. E infatti dovevano chiudere a febbraio del 2008”.
A parlare è Rosina Platì, la madre di Giuseppe Demasi, uno dei morti della Thyssen di Torino. Giuseppe aveva 26 anni quella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007, quando alla linea 5 dell’acciaieria si sviluppò un incendio seguito da un’esplosione che investì di olio bollente 8 operai, 7 dei quali persero la vita sul colpo o nel corso delle settimane successive, tra atroci sofferenze dovute alle ustioni riportate. Sono sue le urla strazianti, quel “non voglio morire” che si sente distintamente in sottofondo nel corso della telefonata al 118, subito dopo l’incidente. Giuseppe sarà l’ultimo ad andarsene, il 30 dicembre.
“Sicurezza zero in quel posto. Non gliene fregava niente. I soldi che erano destinati alla sicurezza venivano dirottati a Terni perché tanto la fabbrica doveva chiudere. E intanto lì c’erano più di 200 ragazzi. Li avevano abbandonati a loro stessi, come mi aveva detto mio figlio una settimana prima: ‘Mamma, ci hanno lasciati soli, a nessuno importa più di noi, un giorno o l’altro lì scoppierà tutto’. Io queste parole non me le posso dimenticare mai. Perché è successo proprio così, come mi aveva detto mio figlio. Lui non si sentiva sicuro, io non dovevo farlo lavorare in quella fabbrica, dovevo dirgli ‘scappa, vai via di là’. Non l’ho fatto e il rimorso mi consumerà per sempre. Ma i tedeschi hanno sbagliato perché sapevano cosa poteva capitare e non hanno fatto niente per evitarlo. E tutto questo per risparmiare, nonostante proprio quell’anno avessero fatto milioni di euro di profitto. La fabbrica non andava male. Eppure hanno fatto morire i nostri figli, li hanno fatti sciogliere come la cera. Proprio perché non gliene fregava niente”.
Giuseppe era un collaudatore. Il suo lavoro gli piaceva. Ma non gli piaceva quella fabbrica. La linea 5, il buio, i vetri rotti per terra, gli estintori scarichi, pozze d’olio ovunque. “Veniva a casa con i pantaloni inzuppati di olio fino al ginocchio. Pensi dove lavorava mio figlio. E io non avevo capito, io non capivo, io non so come ho fatto a non capire la pericolosità di quella fabbrica. Peggio che essere in un lager”. L’anno prima – questo è un episodio che spesso ti raccontano e che spiega più di qualsiasi analisi tecnica – in un programma di confronto tra diverse realtà dell’universo ThyssenKrupp, alcuni operai tedeschi erano venuti a lavorare, per un periodo, a Torino e alcuni italiani erano andati in Germania. I tedeschi non vedevano l’ora di scappar via e chiedevano di continuo ai colleghi italiani come potessero lavorare in quelle condizioni. Agli italiani in trasferta, invece, tutto appariva così ordinato, sicuro e pulito che gli sembrava di lavorare in un ufficio, non in una fabbrica. “Pensi come lavorava mio figlio”.
Eppure, nonostante i tanti gradi di giudizio abbiano sempre confermato la colpevolezza dei manager tedeschi, Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, 13 anni dopo la strage, vivono in Germania. “Il primo ancora a piede libero, senza aver scontato neanche un giorno di carcere, nonostante la condanna a 5 anni. Il secondo, in semi libertà, torna in carcere solo la notte. Questo processo è stato una beffa. Non c’è stata giustizia. Noi familiari siamo veramente esasperati, tristi, arrabbiati. Non abbiamo più una vita, la nostra è una sopravvivenza. Ormai può accadermi qualunque cosa. Non mi fa più male niente, niente più mi ferisce. Non riesco a soffrire più di quello che ho sofferto, non riesco nemmeno a spiegarle cosa provo. Non riesco più ad avere sentimenti per niente. Hanno ammazzato i nostri ragazzi, ma siamo noi quelli condannati all’ergastolo della sofferenza, alla solitudine. Io mi sento sola in mezzo a milioni di persone. Noi siamo stati condannati, non loro”.
“L’Italia non ci ha aiutato. I politici non ci hanno aiutato, non hanno dato peso a questa strage, hanno dato per scontato che questi assassini andassero in galera, però nessuno ha mosso un dito. Anche nell’ultimo incontro con il presidente del consiglio, Conte, tutti sono stati gentili, carini, vicini, ma hanno detto la stessa cosa: non si può fare niente, la Germania è uno stato forte. Ma se questi sono colpevoli devono pagare. E invece no. Perché tra di loro non vogliono litigare, non vogliono rovinare i rapporti e allora si accontentano. Se la Germania decide che va bene così, va bene anche per l’Italia”. Abbandonati in vita per risparmiare. Dopo la morte, per questioni di realpolitik. Vittime due volte, dei piccoli calcoli di bottega e delle grandi convergenze politiche ed economiche. Alla fine a pagare sono solo i familiari, con il loro dolore.
“Provo tanta rabbia – si sfoga Rosina Platì – perché noi stiamo lottando per la sicurezza sul lavoro. Ci è toccata questa disgrazia e purtroppo non ci possiamo fare più niente. Per questo cerchiamo di cambiare le cose, di raccontare la nostra esperienza, qualche volta anche nelle scuole. Ma non si riesce a fare niente. Muore sempre più gente. Qui non esiste la cultura della sicurezza. A nessuno piace investire sulla sicurezza. Tutti vogliono solo una cosa: guadagnare tanto, guadagnare sempre di più. Non gliene frega niente se la gente muore. In 13 anni io non ho visto alcun miglioramento. Non ho visto alcun cambiamento. Sono pessimista. Mi spiace dirlo, ma non credo che le cose cambieranno mai. La gente continuerà a morire sul lavoro”.