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Il Processo di Verona, iniziato l’8 gennaio contro sei dei diciannove membri del Gran Consiglio del fascismo che nella seduta del 25 luglio del 1943 avevano sfiduciato Benito Mussolini, si chiude il 10 gennaio 1944 con la condanna a morte di Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi; Tullio Cianetti invece viene condannato a 30 anni di carcere; l’esecuzione è fissata per l’11 gennaio.
I duri e puri della Repubblica Sociale vendicano così il 25 luglio e puniscono i 19 gerarchi fascisti membri del Gran Consiglio del Fascismo che avevano aderito all’ordine del giorno Grandi. Di fatto attraverso una norma penale con effetti retroattivi viene data formalizzazione giuridica alla vendetta, costituendo per l’occasione anche un tribunale destinato solamente a giudicare coloro che avevano approvato l’ordine del giorno. Ma cosa è successo esattamente sei mesi prima?
Alle 17 del 24 luglio 1943 i 28 membri del Gran consiglio del fascismo, che non si riuniscono dal 1939, si incontrano a Palazzo Venezia per votare l’ordine del giorno che porrà fine al ventennio fascista, mettendo in moto il meccanismo che avrebbe portato all’uscita dell’Italia dalla Seconda guerra mondiale e all’inizio della Resistenza.
“L’ingresso del Duce nella sala del Gran Consiglio - scriveva l’economista Alberto De Stefani - è stato silenzioso; un’accoglienza di attesa; pareva non vedesse nessuno; rifletteva e dava l’impressione di chi si appresta ad ascoltare; la sua espressione era passiva, senza sintomi di reazione come quella di chi deve accettare un avvenimento e non vuole sottrarvisi”. Non esistono resoconti stenografici ufficiali della riunione ma molti dei testimoni, tra cui lo stesso Mussolini, racconteranno - non sempre in maniera concorde - gli avvenimenti di quella lunga, storica notte.
Nel 2013 è stato rinvenuto dal documentarista storico Fabio Toncelli, nel corso delle riprese per il suo documentario Mussolini 25 luglio 1943: la caduta, un presunto verbale manoscritto della seduta. In esso si descrive un "clima incandescente, con aspri scontri verbali", addirittura si riporta di un gerarca che avrebbe estratto la pistola. L’autenticità del verbale è però tuttora oggetto di valutazione da parte degli storici. I 28 componenti saranno chiamati a votare per appello nominale e la votazione sull’ordine del giorno Grandi si concluderà con 19 voti a favore, sette contrari e un astenuto. Roberto Farinacci dopo aver presentato un proprio odg uscirà dalla sala non partecipando così al voto.
“La drammatica riunione dura dieci ore - annotava Dino Grandi nei propri ricordi autobiografici - Ciano si alza in piedi con una proposta assurda, quella di fondere insieme l’ordine del giorno Grandi con l’ordine del giorno Scorza. La proposta cade fortunatamente nel vuoto. È a questo punto che il duce, giudicando di avere in pugno la maggioranza dell'assemblea, decide di mettere ai voti il mio ordine del giorno. La deliberazione da me proposta, quale surrogato di un voto parlamentare è approvata a grande maggioranza: 19 contro cinque. Con voce stupefatta il segretario del partito comunica all’assemblea i risultati della votazione. Dopo un attimo di silenzio il duce si alza e si avvia a passo lento verso l'uscita. Ferma con un gesto del braccio il segretario del partito, mentre questi si accinge a dare il consueto saluto al duce. Sulla soglia della sala del Mappamondo il duce si volge verso l’assemblea e dice: ‘Il Gran Consiglio stasera ha aperto la crisi del regime’”.
A Villa Torlonia Mussolini è atteso dalla moglie Rachele che così ricorda: “L’aspettavo in piedi e gli sono corsa incontro in giardino. Era con Scorza. Non so come mi sia uscita di bocca la frase ‘Li hai fatti almeno arrestare tutti?’. Benito ha risposto a voce bassa: “Lo farò”. Erano le cinque quando ci siamo salutati e ci siamo augurati un buon riposo” (in effetti i 19 oppositori saranno tutti condannati a morte dal tribunale della Rsi ma solo 6 finiranno sotto il piombo del plotone di esecuzione; gli altri 13 riusciranno a sottrarsi alla cattura per lo più espatriando. 2 soltanto saranno giustiziati dai partigiani subito dopo il 25 aprile).
Il giorno successivo si reca a Villa Savoia per riferire al re l’esito del voto del Gran consiglio. Il colloquio dura appena venti minuti. Vittorio Emanuele III comunica all’ormai ex duce che il voto dei gerarchi lo ha indotto a nominare il maresciallo Pietro Badoglio quale suo successore al vertice del governo, affermando: “Caro duce, le cose non vanno più. L’Italia è in tocchi. L’esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini. II voto del Gran Consiglio è tremendo. Diciannove voti per l’ordine del giorno Grandi: fra essi quattro Collari dell’Annunziata. Voi non vi illudete certamente sullo stato d’animo degli italiani nei vostri riguardi. In questo momento voi siete l’uomo più odiato d’Italia. Voi non potete contare più su di un solo amico. Uno solo vi è rimasto, io. Per questo vi dico che non dovete avere preoccupazioni per la vostra incolumità personale, che farò proteggere. Ho pensato che l’uomo della situazione è, in questo momento, il maresciallo Badoglio. Egli comincerà col formare un ministero di funzionari, per l’amministrazione e per continuare la guerra. Fra sei mesi vedremo. Tutta Roma è già a conoscenza dell’ordine del giorno del Gran Consiglio e tutti attendono un cambiamento. Io vi voglio bene e ve l’ho dimostrato più volte difendendovi contro ogni attacco, ma questa volta devo pregarvi di lasciare il vostro posto e di lasciarmi libero di affidare ad altri il governo”. Alla fine dell’incontro, nel cortile di Villa Savoia, Mussolini verrà arrestato dai carabinieri.
Per tutta la giornata del 25 luglio verrà mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto accaduto; solo alle 22:45 sarà data dalla radio la notizia della sostituzione del capo del governo. “Sua maestà il re e imperatore - verrà ufficialmente comunicato - ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro, segretario di Stato di sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato capo del governo, primo ministro, segretario di Stato, il cavaliere, maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio”.
Seguirà la lettura di due proclami da parte del re e di Badoglio: quest’ultimo, per non destare sospetti nei confronti dei tedeschi, finiva con queste parole: “La guerra continua. L’Italia duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a sua maestà il re imperatore, immagine vivente della patria, esempio per tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito”.
Meno di due mesi più tardi, il 3 settembre, verrà stipulato l’armistizio con gli alleati divulgato cinque giorni dopo. Le parole pronunciate con voce ferma dallo stesso Badoglio alle 19 e 42 dell’8 settembre 1943 dalla sede dell’Eiar sono ormai consegnate ai libri di storia: “Il governo italiano riconosciuta l’impossibilità di continuare un’impari lotta contro le forze soverchianti avversarie e nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accettata”.
“Dopo aver dormito vent’anni, questo popolo martire fa sentire all’immondo aguzzino in camicia nera tutte le terribili conseguenze del suo risveglio. È in piedi oramai. Lo si era creduto morto, servitore, vile e codardo, e invece è là!”.