La Sicilia, e Palermo in particolare, sono i territori con il numero più alto di beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Alcuni, così come suggerito da Pio La Torre e poi realizzato dalla legge voluta da Libera e dalla volontà di moltissimi cittadini e cittadine sul riuso sociale dei beni confiscati, rivivono grazie ad associazioni e cooperative cui sono stati assegnati, altri – la maggioranza – sono abbandonati al degrado perché troppo costoso per gli eventuali assegnatari ristrutturarli e manutenerli.

La proposta, allora, arriva quasi spontanea, ma in realtà non è affatto banale: inserire gli immobili nel Piano urbanistico del Comune e utilizzarli per dare risposte a quanti, spessissimo giovani, non sono in grado di avere un tetto sulla testa a prezzi di mercato. A pensarci, la Fillea di Palermo assieme alla Cgil.

Un po’ di numeri

Gli immobili sequestrati e confiscati nella provincia di Palermo sono 4.051 sui totali 7.727 della Sicilia. Nella sola città di Palermo quelli già consegnati sono 2.284, mentre quelli che sono ancora in gestione all’Agenzia dei beni sequestrati e confiscati sono, sempre nella provincia di Palermo, 4.810 sui 8.583 dell’intera isola, e quelli nel perimetro del Comune sono 1.309.

Secondo Pietro Ceraulo, segretario generale Fillea Cgil Palermo, “il numero di appartamenti in condominio spicca, proprio a testimoniare come la criminalità abbia messo mano soprattutto nel settore delle costruzioni attraverso imprese colluse che generavano ricchi profitti con l’assegnazione di titoli di proprietà degli appartamenti in costruzione nei confronti delle famiglie mafiose”.

Le ragioni di una proposta

Chi meglio del sindacato dei lavoratori e delle lavoratrici edili conosce nel profondo una città? E allora l’analisi su Palermo è cruda, ma vera: “La città da diversi anni vive una forte crisi, è difficile riconoscerla come la casa della società, piuttosto è il luogo della lacerazione della società”. Aggiunge Ceraulo: “Vi sono ancora diverse criticità, riferite soprattutto alla qualità degli spazi abitati, del costruito. Si pagano affitti non indifferenti per case vecchie e obsolete, tasse, tributi e oneri per aver garantito un servizio di welfare sociale all’altezza degli standard europei, convivendo con meccanismi di illegalità che gettano nella rassegnazione generazioni di cittadini e cittadine”.

Per una politica dell’abitare chiara ed efficace

E allora eccola la proposta: inserire nel Piano urbanistico generale tutto il patrimonio confiscato alla mafia del Comune di Palermo. Gli appartamenti, ma anche altri immobili da destinare poi a luoghi della socialità o del welfare. In questo modo i manufatti potrebbero essere ristrutturati e rendere, ad esempio, con i canoni di locazione, contemporaneamente assegnando le case a chi ne ha diritto, rispettando le graduatorie e limitando così il fenomeno di fuga delle giovani coppie dal comune divenuto così caro.

 Mario Ridulfo, segretario CdL Palermo

La scommessa del sindacato

“Se mettiamo insieme l'idea dell’abitare sociale e il riutilizzo dei beni confiscati costruiamo una sorta di economia di scala della legalità”. Così riflette Mario Ridulfo, segretario generale Cgil Palermo, ritenendo questo progetto anche un modo per affrontare un doppio paradosso tipico del capoluogo siciliano: da un lato, si assiste alla fuga dei giovani verso la provincia per gli affitti troppo cari in città, accentuando così il calo di natalità presente anche nell’isola; dall’altro, un ingente patrimonio immobiliare costruito tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso, ma quasi totalmente sequestrato a Cosa Nostra. E allora, questo patrimonio entrerebbe nel piano urbanistico del Comune e verrebbe riconsegnato alla collettività in un’ottica di sviluppo sociale e di riqualificazione ambientale.

Il lavoro al centro

Salvaguardia del territorio, perché se il progetto decollerà si potrebbe avere la disponibilità di appartamenti a consumo di suolo zero. Difendere e diffondere il lavoro di qualità. È sempre il dirigente sindacale a spiegare che “si potrebbe innescare un circuito virtuoso per cui per ripristinare i manufatti, non solo – com’è ovvio – si creerebbe lavoro di qualità perché i lavoratori lo farebbero in piena legalità anche contrattuale, ma si potrebbero utilizzare le aziende del settore, ma confiscate alla mafie, e queste sono numerose, che troppo spesso hanno difficoltà a inserirsi nel circuito dell’economia legale”.

Si può fare

Il piano, ambizioso ma realizzabile, c’è. L’interesse dell’amministrazione – almeno a parole – c’è, ora bisogna dargli gambe. “Occorre – sottolinea Ridulfo – che diversi soggetti, dal sindacato alle associazioni di costruttori, dall’Università agli ordini professionali di architetti e ingegneri, si siedano attorno a un tavolo e si cominci a dare vita a un progetto vero e proprio dove ciascuno si assume la responsabilità della parte che gli compete”.

L’intuizione di Pio La Torre, quella secondo la quale per costruire legalità occorre restituire alla collettività quanto la mafia ha sottratto con la violenza, il ricatto, l’intimidazione, troverebbe non solo l’ennesima conferma, ma il sostegno della concretezza. Perché secondo Ridulfo, “non possiamo permetterci il lusso di non fare nulla”.