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Fra la metà degli anni '90 e il 2016 la ricchezza posseduta dai 5mila italiani più ricchi è cresciuta dal 2 al 7% del totale. Nello stesso periodo, la ricchezza posseduta dal 50% della popolazione adulta più povera, ovvero circa 25 milioni di persone, è scesa dal 10 al 3%. Un dato impressionante, ma c'è di più. Fra il 2007 e il 2018, quindi nel pieno degli anni della crisi economica, i 10 italiani più ricchi (quelli presenti nella lista dei miliardari globali di Forbes) hanno accresciuto la loro ricchezza di circa l'80%. Sono numeri che danno la misura dell'impetuosa crescita e della dimensione della disuguaglianza nel nostro Paese. Numeri di fronte ai quali il tema della giustizia economica e sociale dovrebbe essere al centro non solo del dibattito, ma di qualsiasi scelta politica.
Così non è, al di là delle mere parole, nonostante il termine disuguaglianza sia ormai penetrato nel discorso pubblico e divenuto quasi di “moda” (un po' come il termine “sostenibilità”). Ne è convinto Fabrizio Barca, economista, già ministro della Coesione territoriale e oggi animatore del Forum Disuguaglianze e Diversità, la cui missione è proprio quella di portare la lotta alle disuguaglianze al centro delle politiche pubbliche e delle azioni collettive.
Barca, partiamo da qui: la lotta alle disuguaglianze resta ancora troppo marginale nella costruzione delle politiche pubbliche? E l'emergenza Coronavirus non ha “insegnato” nulla in questo senso?
A parole forse sì, ormai non c'è discorso pubblico che non includa il termine disuguaglianze, ma in concreto non mi pare che ci sia la consapevolezza della gravità delle faglie esistenti. Guardi ad esempio quello che è successo con il reddito di emergenza, le resistenze di un grosso pezzo di classe dirigente del Paese che non capiva - a differenza di quello che è successo ad esempio in molti paesi asiatici - che in Italia c'erano 6,5 milioni di persone fortemente vulnerabili, per metà lavoratori precari, per metà irregolari, tagliati fuori dai sostegni. Un'enorme massa di persone sull'orlo della povertà che rischiavano di essere dimenticate. Ma anche dall'Europa arrivano segnali preoccupanti.
Ma come? L'Europa ha appena approvato il Recovery fund, giudicato da tutti un passaggio storico...
E certamente lo è, soprattutto perché dà vita alla prima forma di mutualizzazione del debito a livello comunitario, con la previsione di coprirlo con imposte europee, non con trasferimenti dai bilanci nazionali. Ma c'è un problema: i due obiettivi alti del Recovery and Resilience Facility sono la trasformazione verde e quella digitale. Non c'è la parola inclusione sociale e non c'è addirittura neanche la parola coesione. Spero che il Parlamento europeo corregga questo gravissimo errore, ma ciò rivela che quando si prendono le decisioni non si ha in testa che gli interventi sulla mobilità, sulla salute, sulla scuola debbano interessare prima di tutto quel 40% della popolazione che è in grave difficoltà. Debbano cioè riequilibrare. Insomma, non vedo alle parole conseguire neanche le intenzioni, non dico le politiche, ma le intenzioni.
Senta Barca, nel suo ultimo libro - “Un futuro più giusto” (il Mulino) scritto a quattro mani con Patrizia Luongo, e frutto del lavoro del Forum - individuate un responsabile molto preciso di questa esplosione delle disuguaglianze negli ultimi 30 anni: il neoliberismo e la sua capacità di cambiare il senso comune, di penetrare nelle nostre teste. Può spiegarci cosa intendete?
Lo spiega molto bene Branko Milanovic nel suo ultimo libro, parlando del “senso di colpa” che affligge le persone che non vendono qualcosa di loro che potrebbero vendere, che siano le tre ore di tempo tra una lezione e l'altra all'università, da monetizzare con Deliveroo o JustEat, che sia il posto del passeggero nella mia auto, da vendere su Blablacar, o che sia un divano da mettere su Ebay, anziché darlo all'amico o al vicino che ne ha bisogno. Il neoliberismo ha prodotto una frattura nelle nostre consuetudini di solidarietà sociale. Il mercato è penetrato, ha marchetizzato, monetarizzato i rapporti umani. E, riducendo i cittadini a consumatori, il neoliberismo ha indebolito la democrazia e “scatenato” il capitalismo, fino a renderlo dannoso anche a se stesso, come molti imprenditori e lo stesso Financial Times ormai riconoscono: abbiamo ridotto questo sistema economico – dicono – alla massimizzazione del valore per gli azionisti. Così, lo strapotere del capitalismo arriva a corrodere la società e, quindi, il capitalismo stesso.
In questo contesto, in questo sistema malato, il Covid-19 si è dimostrato tutt'altro che un virus “democratico”, andando a colpire in maniera molto diversa le persone a seconda del loro livello di fragilità sociale. Il rischio dunque è che la pandemia faccia da amplificatore alle disuguaglianze?
È così. Il dato più eclatante è che per il 72% degli italiani non c'è stato in questi mesi un peggioramento del reddito. Questo significa che quel crollo di ricchezza del 9, 10, forse 12% che si prevede, si concentrerà su una quota di popolazione modesta, in maniera assolutamente asimmetrica. Attenzione però, nessuna sorpresa, non possiamo cadere dalle nuvole. Sapevamo benissimo che ci sono 10 milioni di italiani che non hanno i risparmi per poter campare due settimane, figuriamoci tre mesi. E poi è già successo in passato. Le analisi scientifiche sulle precedenti pandemie e sulle catastrofi naturali, penso ad esempio all'uragano Katrina, mostrano che nuove disuguaglianze si aprono sempre e lo fanno a causa del pregresso, ma anche delle politiche adottate. Allo stesso modo il virus può correre lungo le faglie esistenti e aprirle ancora di più: abbiamo lasciato concentrare la conoscenza? Bene, ora scopriamo che vuol dire avere sottoinvestito nei metodi di ricerca dei vaccini … perché non conveniva alle big pharma! Questo ci sia di enorme avviso rispetto a quello che dobbiamo fare: abbiamo bisogno di politiche diverse, che non tentino di sanare le disuguaglianze buttando soldi ai problemi, sussidiando a valle, ma modificando i meccanismi di formazione della ricchezza, a monte, e offrendo opportunità alle persone che si stanno ricostruendo una vita. Purtroppo, al momento non è quello che vedo.
Eppure il contesto storico e la disponibilità di risorse senza precedenti suggerirebbero che il momento sia proprio quello giusto.
Guardi, è sicuramente importante aver ottenuto quelle risorse, ma io dico che potremmo anche fare danni usandole male. Mi rifaccio ancora all'uragano Katrina: lì le politiche post catastrofe hanno accentuato le disuguaglianze, hanno fatto danni, appunto. Allora dobbiamo analizzare con attenzione cosa può succedere in Italia. Io vedo tre scenari. Il primo è quello che chiede attualmente Confindustria: sussidi, sussidi, e ancora sussidi. Soldi buttati per far sopravvivere aziende che già stavano male prima, in pasto ai rentier del privato, sociale e pubblico. Una sorta di neo-corporativismo italiano che non aiuta i lavoratori. Il secondo scenario è quello delle liste di progetti, alcuni dei quali possono anche essere utili, ma che vengono trattati come monadi, come se fossero opere a sé, non pezzi di strategie territoriali. Questi sono due scenari disastrosi, in grado al massimo di aprire una nuova stagione di protagonismo della magistratura e di creare nuova rabbia sociale.
E la terza ipotesi invece?
È lo scenario alternativo che come Forum abbiamo presentato al Governo, con un Documento disponibile sul nostro sito da 24 luglio: forti indirizzi strategici nazionali e poi empowerment dei livelli istituzionali territoriali, Comuni e loro alleanze. Mirando a obiettivi chiari. Ad esempio sulla casa, raddoppiando (dal 4 all'8%) il social housing e l'edilizia residenziale pubblica del Paese; oppure sulle scuole, costruendone di nuove, a misura di territorio, per sostituire le attuali che in molti casi sono catapecchie. Quindi niente bandi, basta con i bandi di progetto e avanti con strategie territoriali che vedano i Comuni costruire piattaforme di confronto, nelle quali cittadini e lavoratori possano portare i propri saperi. È l'idea di una politica che non sia né top-down né bottom-up, ma un incontro dei due livelli, sfruttando sia i saperi dei grandi centri di competenza (cominciando con imprese pubbliche e Università) sia i saperi diffusi. Attenzione, per fare questo non servono anni, il Governo può chiudere la partita entro ottobre se c'è volontà politica. Si può fare, lavorando insieme alla cittadinanza attiva e al sindacato.
Ecco Barca, a proposito di sindacato. Nel suo libro c'è una proposta molto forte che coinvolge il mondo del lavoro: l'introduzione dei “Consigli del lavoro e cittadinanza”, sul modello delle esperienze già presenti in alcuni Paesi europei. Una forma di cogestione dell'impresa con i lavoratori, che includa però anche altri stakeholders, in particolare i residenti della comunità locale interessati alle ricadute ambientali. Davvero pensa che in Italia si possa fare una cosa del genere?
Quella proposta è esattamente il complemento a uno di un nuovo modo di amministrare le risorse pubbliche. Perché vuol dire rafforzare il dialogo fra impresa, lavoro e ambiente, territorio per territorio, costringendo le tre parti ad alzare la qualità tecnica del loro confronto. Si tratta d'altronde di tradurre in pratiche concrete l'intesa raggiunta nel 2018 da sindacati e organizzazioni imprenditoriali sulla partecipazione strategica dei lavoratori. L'articolazione dello Stato, dai Comuni alle Regioni, ha bisogno di trovare un pensiero maturo di queste tre parti. In più, il Consiglio del lavoro e della cittadinanza è un luogo in cui tutto il lavoro è rappresentato, a prescindere dal tipo di contratto, e questo può sanare quella frattura fra lavori e lavoratori che il Covid ha invece riaccentuato, fatto di cui il sindacato dovrebbe essere molto preoccupato. In più, lavoro e impresa sono messi faccia a faccia con gli interessi ambientali e costretti a dialogare, non a guai fatti, ma a investimenti da fare. Quei famosi investimenti sostenibili che altrimenti non arrivano mai. Insomma, il Consiglio può essere una modalità per dare voce a un nuovo patto sociale, come lo stiamo definendo con tanti sindacalisti con cui è aperto il confronto. E se negli anni '70 il patto era tra profitto e salario contro la rendita, oggi entrano in gioco anche gli interessi ambientali. Per questo dico al sindacato, comprendendo preoccupazioni e dubbi, che dobbiamo provarlo sui territori, fare esperimenti, per poi calibrare meglio ed aggiustare. Ci sono imprenditori aperti e intelligenti con cui mettersi al lavoro. In sei mesi si può montare, c'è tanta urgenza in questo momento, tanta voglia di costruire cose concrete. Questo patto sociale a tre, contro la rendita pubblica privata e sociale, può davvero contribuire a un futuro più giusto.