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Tutti possiamo sbagliare, e ovviamente è giusto pagare, ma chi esce dal carcere deve poter essere reinserito. Spesso i ragazzi che finiscono nel carcere minorile di Palermo incontrano lo Stato quando vengono arrestati, conoscono solo un “mondo”. Ma è nostro dovere fargli vedere che ne esiste un altro, che delinquere non è l’unico modo di vivere. Sono parole piene di passione quelle che ci rivolge Tina Montinaro, moglie di Antonio, il capo scorta di Giovanni Falcone che, col giudice e con Francesca Morvillo, Vito Schifani e Rocco Dicillo, fu ucciso il 23 maggio del 1992 a Capaci dalla mafia.
Tina Montinaro fa parte del Consiglio di aiuto sociale istituito dal Presidente del tribunale di Palermo Antonio Balsamo. Le abbiamo chiesto di raccontarci il suo impegno con i ragazzi del carcere minorile. Ci risponde sorridendo, con passione e fermezza, intercalando all’italiano un napoletano ridente che l’aiuta a sottolineare con intensità le sue parole, che però raccontano fatti: “A me l’antimafia delle parole non interessa”.
Perché il lavoro è così importante per costruire legalità?
Innanzitutto perché il lavoro è dignità. E poi perché è certamente importante pensare alla rieducazione all’interno degli istituti di pena, però quando poi escono? Bisogna pensare al dopo. Qualcuno di noi si deve dare da fare per trovare un lavoro a questi ragazzi, occorre fargli capire che comunque lo Stato è dalla loro parte, gli sta tendendo una mano. Altrimenti, quando escono, per campare vanno di nuovo a delinquere; invece, io penso che sia una grande dimostrazione di Stato serio dire "io ti offro il lavoro”. Anche perché spesso, proprio perché ex detenuti, hanno ancora meno possibilità dei loro coetanei di trovare un'occupazione. Per questo ho provato a dare ai ragazzi del carcere minorile di Palermo un’opportunità nel Giardino della memoria
In che modo?
Dopo 25 anni dalla strage di Capaci, sono riuscita a ottenere che nella terra che costeggia quel tratto di autostrada venisse piantato un giardino, è stato affidato alla mia associazione. Il Giardino della memoria va tenuto in ordine, le piante vanno curate. Come vanno curati i ragazzi del carcere. Allora ho pensato di mettere insieme le due cose. I ragazzi escono dall’Istituto due volte a settimana e vengono a occuparsi del Giardino della memoria. Imparano un lavoro nel luogo della strage, facciamo reinserimento sociale ma anche memoria. E, devo dire, questi ragazzi sono rispettosi, cercano di sistemare le cose, si sono affezionati a me. Stiamo parlando di ragazzi che hanno sbagliato ma a cui va data la possibilità di costruirsi un futuro migliore. Non tutti abbiamo la fortuna di nascere nella famiglia giusta.
Video a cura della Polizia di Stato
Giardinieri, dunque, ma non solo.
Abbiamo 6.000 metri quadrati pieni di piante di ulivo che lo scorso ottobre erano carichi di olive. Era naturale chiedersi che fare. I ragazzi le hanno raccolte, le abbiamo portate a una scuola di Palermo, il Majorana, che ha un frantoio e abbiamo fatto l’olio. L’arcivescovo della città ha deciso di benedirlo e mandarlo in tutte le chiese della Sicilia, per utilizzarlo per i sacramenti. Insomma, è una cosa bella.
Perché lei, vittima di mafia, si occupa con tanto impegno di detenuti?
Perché penso che sia giusto farlo, me l'ha insegnato mio marito. Penso sia giusto sporcarmi le mani, stare sul territorio, cercare di aiutare queste famiglie, aiutare questi ragazzini. Lo faceva anche lui e quindi per me è normale farlo.
La sua associazione opera insieme alla polizia di Stato, con le scuole, ora con le parrocchie.
È il volto dello Stato che dobbiamo far vedere a questi ragazzi. Finché non hanno incontrato noi, per loro lo Stato non c’era mai stato, poi un poliziotto li ha arrestati. Invece oggi i poliziotti sono quelli che li vanno a prendere due volte a settimana, li portano nel Giardino. Stiamo tutti insieme, loro imparano a fare i giardinieri, a cogliere le olive e insieme imparano che - certo - hanno sbagliato e devono pagare, ma che è possibile un’altra vita e che c’è uno Stato che è capace di stare al loro fianco.