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Le notizie di questi giorni riguardanti i gravi ritardi sul processo di infrastrutturazione digitale del Paese stanno confermando tutte le preoccupazioni che stavano alla base degli allarmi che abbiamo lanciato negli ultimi anni. Gli interventi pensati per fare la più grande rivoluzione digitale che si sia mai immaginata si sono di fatto limitati a un elenco di opere e di procedure più veloci, che hanno affidato e continuano ad affidare alla competizione tra soggetti privati il delicato compito di rispondere a quello che si è imposto ormai come vero e proprio diritto/bisogno di cittadinanza: il diritto ad una connessione veloce, stabile e sicura.
Lo conferma il gravissimo ritardo riguardante lo stato di avanzamento dei lavori finanziati con il Pnrr nelle aree grigie (quelle a parziale fallimento di mercato) che Open Fiber (per il 60% di proprietà di Cdp equity e per il restante 40% del fondo infrastrutturale australiano Macquarie) si era impegnata a cablare entro il mese di giugno 2026 vincendo uno dei due bandi “Italia a 1 Giga” (l’altro è stato aggiudicato a Tim). Alla base di questo ritardo ci sarebbe la non corrispondenza tra le previsioni fatte in fase di mappatura e la ricognizione effettuata sul campo in relazione agli edifici da raggiungere.
Esattamente quanto denunciavamo noi nel 2021, quando contestammo l’impostazione data all’operazione dall’allora ministro Colao che, lo ricordiamo, per decidere dove impiegare le risorse del Pnrr, propose di effettuare una mappatura su tutto il territorio nazionale sulla base delle dichiarazioni degli operatori privati. Questi avrebbero dovuto indicare il numero dei civici che al 2026 non sarebbero stati oggetto di propri investimenti in grado di garantire una velocità di connessione di 300Mbit/s in download (e che dunque potevano andare “a bando”).
Questa non corrispondenza determinerebbe oggi, a detta di Open Fiber, un ritardo di almeno un anno, il che significherebbe perdere 1,8 miliardi di fondi europei, consolidando nelle diverse aree del paese destinatarie degli interventi una situazione di grande arretramento tecnologico. Senza contare il rischio occupazionale per i 10mila posti di lavoro che gravitano direttamente e indirettamente intorno a Open Fiber, e le ricadute sul governo che, col Mef, è azionista di Cdp con oltre l’80%.
Va evidenziato il fatto che gli obiettivi da raggiungere erano già stati oggetto di revisione, perché dagli iniziali 3,9 milioni di numeri civici che erano a carico di Open Fiber si era scesi a 2,2 milioni quando si è scoperto che il 43% dei numeri era inesistente. Problemi analoghi erano stati riscontrati da Tim, che per le aree di sua competenza ha rilevato che il 54% di numeri civici da raggiungere è inesistente. Nonostante questo Open Fiber non raggiungerebbe comunque gli immobili che risulterebbero più ”sparsi” del previsto sul territorio. Perché questo comporterebbe un allungamento della rete da costruire di 20mila chilometri rispetto ai circa 60mila chilometri previsti dal bando, con conseguente aumento dei costi a carico dell’operatore.
A fine 2023 erano infatti collegati meno di 239mila numeri civici contro i 554.707 previsti dai bandi di gara, già rivisti alla luce dei civici risultati inesistenti. La media dei collegamenti era di circa 36mila civici al mese. Troppo poco per rispettare il cronoprogramma previsto e non mettere a repentaglio i fondi Ue (Open Fiber ha anche ottenuto una linea di credito per l’emissione di garanzie fidejussorie a sostegno dell’anticipo del 30% dei fondi del Pnrr, pari a circa 550 milioni di euro, relativi al bando del Piano “Italia a 1 Giga”) e per garantire la fluidità di un percorso che nelle migliori delle previsioni auspicavamo potesse ancora portare, sebbene non sia chiaro con quali modalità, alla creazione di una Rete unica insieme a Tim.
Con queste premesse preoccupa ulteriormente il fatto che non vi sia chiarezza rispetto a quali misure il governo intenda adottare per evitare quello che si prospetta come un disastro annunciato. Abbiamo sempre sostenuto che il Pnrr doveva essere l’occasione per ridefinire il ruolo dello Stato e indicare quali scelte devono essere compiute per ridefinire il modello di società e di economia dei prossimi decenni. Questa vicenda conferma che stiamo andando in direzione diametralmente opposta.
Barbara Apuzzo è responsabile politiche e sistemi integrati di telecomunicazione della Cgil nazionale
Riccardo Saccone è segretario nazionale Slc Cgil