Emanuele Montomoli è un docente di Medicina molecolare e dello sviluppo all'Università di Siena e amministratore delegato di VisMederi, una delle aziende incubate dal Toscana life science, la fondazione pubblico-privata senese che promuove attività di ricerca, imprese innovative e integrazione di filiera in biotecnologica e medicina. VisMederi sta lavorando oggi per la certificazione di diversi vaccini, tra cui ovviamente quelli contro il Covid, ed è uno degli anelli della lunga catena che porta dalla sperimentazione in vitro all'approdo dei vaccini sul mercato.
“Siamo nati nel 2009 come società spin-off dell'Università di Siena - ci racconta - con l'obiettivo di dare un futuro ad alcuni ricercatori che lavoravano all'epoca nell'ateneo. L'università stessa ci propose di investire nel capitale più importante che avevamo, il capitale umano. E dopo 12 anni siamo riusciti a dare un futuro ai nostri ragazzi e ad assumerne altri”.
Perché per fare questo lavoro siete dovuti uscire dall'università?
Perché la ricerca pubblica è stata depressa. Io sono un fervido sostenitore della teoria che la ricerca andrebbe fatta negli enti pubblici. In un mondo perfetto, sarebbe quello che dovrebbe succedere. Purtroppo, in Italia, negli ultimi anni si è tagliato moltissimo. Non intendo solo per quanto riguarda i soldi, ma anche nel valore stesso dello studio. Nel nostro paese il lavoro che facciamo è stato sottodimensionato, quindi chi ha voluto fare ricerca di livello elevato o è emigrato all'estero, oppure si è dovuto ingegnare per trovare risorse. E queste risorse in Italia oggi possono essere cercate solo in fondi privati, come stiamo facendo noi.
Perché l'Italia non punta sulla ricerca pubblica?
Il nostro Paese ha scelto per anni di tagliare sulla ricerca di base e sulla sanità pubblica, perché si tratta di due settori nei quali non è possibile vedere risultati nel breve periodo. E' chiaro che a un qualsiasi decisore politico conviene molto di più comprare delle apparecchiature cliniche, anziché investire su una campagna vaccinale. E' un problema di consenso immediato. Perché nella ricerca i risultati si vedranno tra 20-25 anni, se invece si decide di comprare apparecchiature cliniche, si accontentano subito molti medici. E' mancata la prospettiva, insomma, una visione di futuro. E oggi, in piena pandemia, tutto questo si fa ancora più evidente.
Cosa ci ha insegnato quest'anno di convivenza con il Covid, e cosa dovremmo fare un domani, quando il virus sarà contenuto?
L'ultimo anno ci ha insegnato proprio che bisogna investire in quei settori nei quali il risultato non è immediato, ma di lungo termine. Quando parlo di investimenti, non faccio riferimento solo a investimenti economici, ma parlo anche di formazione dei giovani, di infrastrutture, di conoscenza. E' questa l'unica strada che ci permetterà di affrontare con armi migliori la prossima pandemia. Perché purtroppo un'altra pandemia ci sarà. Come c'è stata nel 1919 l'influenza spagnola, nel 1956 l'asiatica e oggi il Covid. Per affrontare meglio il futuro ci servono strumenti completamente diversi da quelli che abbiamo oggi.