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Il 10 dicembre dello scorso anno, a Bolzano, salutavamo per l’ultima volta la compagna Lidia Menapace, scomparsa tre giorni prima, il 7 dicembre, a causa del Covid-19. Sulla sua bara tanti fiori rossi, la bandiera della pace, di rifondazione comunista e un grande simbolo dell’Anpi, nell’aria le note di Bella ciao, per salutare una partigiana.
“Chiamatemi ex politica - era solita dire - ex parlamentare, ex insegnante, ma non chiamatemi mai ex partigiana. Perché io partigiana lo sarò per sempre”. “Non vedo l’ora di uscire e andare nel piccolo giardino sotto casa - diceva pochi mesi prima di morire - Ma non vorrei che la liberazione dopo il virus, si riducesse solo a uscire di casa. (…) Immagino gruppi di persone che pensino a cambiare le cose dentro un grande movimento di cambiamento. Una vita politica in cui ciascuno vede cose che non funzionano e si impegni per trasformarle, in cui le cose sbagliate siano raddrizzate”.
Un impegno costante nella vita della partigiana Bruna, prima donna eletta nel Consiglio provinciale di Bolzano. All’inizio degli anni Sessanta Lidia inizia a insegnare all’Università cattolica del Sacro Cuore con l’incarico di lettrice di lingua italiana e metodologia degli studi letterari, incarico che durante il Sessantotto non le viene rinnovato a seguito della pubblicazione di un documento intitolato Per una scelta marxista.
Dopo essere uscita dalla Democrazia cristiana, simpatizza per il Partito comunista e nel 1969 viene chiamata dai fondatori nel primo nucleo de Il Manifesto cui offre per anni il suo fondamentale contributo.
Membro di Rifondazione comunista fin dalla fondazione, nelle elezioni politiche del 2006 viene eletta al Senato. Terminato l’impegno parlamentare entra nel Comitato nazionale nell’Anpi che così la saluterà attraverso le parole - bellissime - del suo presidente Gianfranco Pagliarulo: “Lidia, una staffetta combattente, al punto - lei pacifista convinta - di diventare sottotenente. “Sottotenente Bruna”. Lidia laureata col massimo dei voti, primo assessore donna in consiglio provinciale e poi parlamentare. Lidia, cattolica, fra le fondatrici del Manifesto. Lidia dirigente dell’Anpi (…) inquieta e allarmata davanti ai pericoli di una nuova destra acostituzionale e illiberale. Così, in breve, ciò che rimane a noi. Dai sogni e dalle necessità condivise nascono le comunità. Sogni e necessità, voler essere e dover essere, che erano, sono e saranno dell’Anpi. “È morto un partigiano nel far la guerra”, dice la canzone di Nuto Revelli. Oggi, a tanti anni di distanza è morta un’altra partigiana. Nel far la pace”.
Piccola ma solo di statura, mai arrendevole, Lidia è stata una di quelle splendide Donne alle quali noi, giovani e meno giovani compagne, dobbiamo tanto.
Ci ha regalato la definizione più suggestiva del movimento delle donne definendolo "carsico" come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza. Suo è lo slogan “Fuori la guerra dalla storia”, sua la proposta di una Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre.
“Cosa rimane oggi della Resistenza? - diceva nell’aprile 2009 - È rimasto un gran buco da colmare. Siamo davanti a un fenomeno che ho iniziato a chiamare di 'alzheimer organizzato' (…) Tutti noi temiamo l’alzheimer, perché è la perdita della memoria di te stesso (…) ma un intero popolo che viene indotto all’alzheimer è un popolo che tu puoi portare dove vuoi. Senza un passato con cui confrontarsi non ha un futuro”. “Cosa ho imparato dalla Resistenza? - diceva - A convivere con la paura e a superarla”.
Un’anticipatrice, Lidia, che già nel 1993 scriveva nella prefazione al volume Parole per giovani donne: “Poiché ho ribattuto che possiamo cominciare a sessuare il linguaggio nei miliardi di volte in cui si può fare senza nemmeno modificare la lingua, e poi ci occuperemo dei casi difficili, ecco subito di nuovo a chiedermi perché mai mi sarei accontentata di così poco. Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere”.
Anche per questo grazie, Bruna.