Ciao Collettiva,

sono una collega, una giornalista (e anche per questo preferisco restare anonima). Vi scrivo per avere risposte. Perché da quando è iniziato il lockdown connesso all’emergenza sanitaria la vita, ve lo dico francamente, è diventata impossibile. Dal 5 marzo, il giorno in cui anche a Roma è stata decisa la chiusura degli asili nido, sono costretta a casa con mio figlio di poco più di un anno e il mio compagno, che lavora nello stesso ambiente. In una insopportabile cattività domestica da ormai 60 giorni, tentiamo con estrema difficoltà di dividerci tra il lavoro e il cambio dei pannolini, le lunghe file per la spesa e le riunioni on line. In un equilibrismo esistenziale che vorrebbe rendere accettabile, senza riuscirci, la coesistenza dell’amore genitoriale e della professione, spesso contemporaneamente. 

Quello che su due piedi è stato ribattezzato impropriamente smart working, non lo è affatto. È piuttosto una spirale perversa di multitasking che trasforma la quotidianità, sempre uguale a se stessa, in una corsa forsennata verso la fine della giornata, dove arriviamo distrutti di fatica, fisica e mentale. Nei meeting ci troviamo a spegnere il microfono e la telecamera, facendo attenzione a non perdere una parola di quello che viene detto, prendendo appunti mentali mentre facciamo al nostro bambino il verso degli animali. È come fare una riunione di redazione nella vecchia fattoria. Estraniante e alquanto demoralizzante. Perché spesso, a conti fatti, ci rendiamo conto di non aver fatto bene niente: né i genitori, né il nostro lavoro. 

Adesso la Fase 2 è arrivata, giusto in tempo per spezzare questo incantesimo e farne uno peggiore. Peggiore perché discriminante. Con la ripresa delle attività, non è stato difficile decidere chi dei due tornasse al lavoro. Non è stata neanche una scelta discussa. Il concetto di fondo, che aleggiava anche se non è mai stato declinato ad alta voce, è che io sono pur sempre la mamma. Così il mio compagno è tornato in sede. E io sono rimasta sola con il bambino. Bandiera bianca, per me non ci sarà più (e chissà per quanto tempo, visto che gli asili restano chiusi) alcuna possibilità di partecipare alla vita di redazione. Persino nel modo disattento e lacunoso di questi ultimi due mesi.

E allora, chiedo a voi, che fine ha fatto la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Dov’è il diritto delle donne ad avere le stesse opportunità degli uomini. Perché il governo, in due mesi, non ha preso in seria considerazione l’impegno di regolamentare questo cosiddetto smart working all’italiana al fine di evitare che qualcuno (sempre le donne) venisse lasciato indietro. Perché la task force che deve studiare una strategia per affrontare la ripresa è composta di uomini soltanto, in un mondo che chissà per quanto ancora dovrà fare i conti con questi problemi, strettamente connessi alla pandemia. Quanto dovremmo aspettare perché un giorno la politica si accorga di questo aspetto della realtà e vari una norma che difenda il nostro diritto a lavorare, a stare con i nostri figli e anche a disconnetterci da tutto, almeno ogni tanto. 

Confido nella vostra risposta.
Grazie, Francesca

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